Stragi, depistaggi e fantasmi neri: Delle Chiaie a Capaci?
Svelata una verità scomoda tra mafia, eversione e silenzi di Stato
Non solo Cosa Nostra: il sospetto di una pista nera
C’è chi dice che le stragi del 1992 e del 1993 siano opera esclusiva di Cosa Nostra. Nessun altro mandante, nessuna regia esterna. Solo mafia. Punto.
In quest’ottica, anche l’isolamento crescente di Paolo Borsellino nei mesi precedenti alla sua morte sarebbe stato causato da tensioni interne alla magistratura, dovute al suo interesse per un’indagine scomoda: il cosiddetto dossier “mafia-appalti”, che metteva a nudo intrecci tra politici, imprenditori e boss nella gestione criminale degli appalti pubblici in Sicilia.
Una “pista nera”? Da escludere. Categoricamente.
Eppure, a ben vedere, quella pista — considerata per anni una fantasia dietrologica — negli ultimi tempi ha rivelato sviluppi concreti, documentati e inquietanti.
Il fantasma di Delle Chiaie: una presenza ignorata
Tra la fine del 1991 e i primi mesi del 1992, emergono segnali inquietanti. La cosiddetta pista nera inizia a prendere forma, e un nome su tutti riemerge dal buio degli anni Settanta: Stefano Delle Chiaie, fondatore di Avanguardia Nazionale, gruppo eversivo neofascista già implicato in numerosi scenari oscuri della storia italiana.
Morto nel 2019 e implicato nel cosiddetto tentato golpe “Borghese”, indagato e prosciolto nei processi sulle stragi di piazza Fontana, del 12 dicembre del 1969 e della stazione di Bologna del 2 agosto del 1980.
Ma da dove arrivano questi segnali? Chi li porta?
A raccontarlo è l’ex procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato. Due le fonti, entrambi infiltrati dei Carabinieri di Palermo:
una donna, Maria Romeo, sorella di Domenico Romeo, uomo di fiducia e autista personale proprio di Stefano Delle Chiaie;
e Alberto Lo Cicero, che faceva da autista e braccio destro a Tullio Troìa, boss mafioso con simpatie di estrema destra, noto per organizzare riunioni e incontri documentati con esponenti politici di destra e con esponenti della destra eversiva nella sua abitazione.
Il racconto di Scarpinato apre uno squarcio su scenari finora ritenuti marginali. Uno squarcio che si allarga con nuovi elementi raccolti nel 2021.

Il pentito dimenticato e il brigadiere sotto accusa
Nel 2021 saltano fuori i verbali di interrogatorio di Alberto Lo Cicero, oggi deceduto. All’epoca, era l’autista del boss Mariano Tullio Troìa, detto “u Mussolini”.
Poco prima della strage di Capaci, Lo Cicero e Maria Romeo avevano raccontato a un brigadiere dei Carabinieri che a Capaci era stata notata la presenza proprio di Stefano Delle Chiaie.
Il brigadiere in questione si chiama Walter Giustini. Sarà lui stesso a confermare quelle confidenze, riferendo che Lo Cicero aveva notato alcuni personaggi di spicco di Cosa Nostra in un luogo dove — secondo il pentito — non avrebbero avuto motivo di trovarsi, se non per “qualcosa di eclatante”.
Giustini è preciso anche sui tempi: la presenza di Delle Chiaie, dice, risalirebbe a prima delle stragi.
Lo Cicero lo avrebbe visto “un paio di volte” in quella zona.
Ma la storia si complica. E si tinge di assurdo.
Il paradosso: chi dice la verità finisce sotto processo
Nel novembre 2023, il tribunale di Caltanissetta prende una posizione netta: non crede al brigadiere Giustini. Anzi, lo mette sotto inchiesta per depistaggio e ne ordina il rinvio a giudizio.
Le dichiarazioni di Maria Romeo, considerate dal tribunale “incerte e non credibili”, vengono liquidate. Eppure, Maria Romeo non ha mai smentito quanto dichiarato, nemmeno davanti alle telecamere della trasmissione Report.
Scarpinato, invece, continua a crederle. Lui quelle indagini le aveva aperte negli anni ’90 e poi riprese nel 2021. Per l’ex procuratore, le testimonianze di Romeo e Lo Cicero erano attendibili.
E, come vedremo, c’è un altro fatto importante: le parole di Maria Romeo non sono isolate, ma perfettamente in linea con lo scenario delle stragi italiane dagli anni Settanta in poi.
Strani intrecci tra eversione nera e apparati dello Stato. Ombre che si ripetono.
Delle Chiaie, Troìa e un nome destinato a tornare
Ma la storia si fa ancora più inquietante.
Secondo quanto riferito da Roberto Scarpinato, sia Maria Romeo sia Alberto Lo Cicero avevano indicato — tra le presenze sospette — un uomo che solo anni dopo verrà identificato come uno degli esecutori della strage di Capaci:
Antonino Troìa, parente stretto del boss Mariano Tullio Troìa, e poi condannato proprio per quella strage.
Un tassello pesante. Un nome che all’epoca non diceva ancora nulla. E che invece, nella scacchiera della strage, occupava una posizione centrale.
La delegittimazione della pista nera
Nel suo reportage andato in onda su Report, il giornalista Paolo Mondani racconta la clamorosa decisione del tribunale nisseno: non dare credito a Maria Romeo, ritenendola “incerta” e “non credibile”.
Eppure, precisa il giornalista d’inchiesta Mondani, la Romeo non ha mai ritrattato. Non ha mai detto di essersi sbagliata. Anzi: ha confermato ogni parola anche in pubblico.
Per Scarpinato, la sua voce andava ascoltata. Come quella di Lo Cicero.
Perché il quadro che sembrerebbe emergere dalle loro parole è lo stesso che accompagna da decenni ogni strage italiana, da Piazza Fontana all’Italicus, da Bologna a Capaci:
destra eversiva, servizi segreti, silenzi istituzionali.
Il racconto di Maria Romeo: Delle Chiaie, l’ambasciatore tra Stato e mafia
Le parole che Maria Romeo affida ai giornalisti di Report sono esplosive.
«Alberto (Maria Romeo si riferisce a Lo Cicero ndr) mi disse che stavano organizzando i Bonanno, i Troìa e Stefano Delle Chiaie quello che poi sarebbe successo il 23 maggio 1992».
Non solo. Aggiunge: «Pare che Alberto avesse fatto un sopralluogo con queste persone, dove c’era un tunnel a Capaci».
Quel tunnel. Proprio quello dove — si presume — venne sistemato l’esplosivo.
E non finisce qui.
Secondo quanto le raccontò Lo Cicero, Delle Chiaie non era solo un osservatore. Non un semplice emissario. Era “l’aggancio tra la mafia e lo Stato”, una specie di ambasciatore tra Roma e Palermo. Un nodo, un tramite, un interprete tra due mondi che ufficialmente non avrebbero mai dovuto comunicare.
E chi erano gli “uomini di Roma”?
Romeo fa un nome: Guido Lo Porto.
Chi è Guido Lo Porto? Il filo rosso tra Bellolampo e il governo Berlusconi
La figura di Guido Lo Porto è ben più che secondaria.
Nel 1969, viene fermato dalla polizia in un poligono di tiro clandestino a Bellolampo, vicino Palermo, mentre spara insieme a un altro nome destinato a entrare negli incubi giudiziari italiani: Pierluigi Concutelli, futuro fondatore di Ordine Nero e assassino del giudice Vittorio Occorsio.
Nel 1972, Lo Porto viene eletto alla Camera per il MSI.
Da lì, sarà rieletto per trent’anni consecutivi. Nel 1994, addirittura, diventerà sottosegretario alla Difesa nel primo governo Berlusconi.
Qualche tempo dopo, come raccontato sempre da Report, verrà indagato per concorso esterno in associazione mafiosa.
E c’è di più.
A Paolo Mondani, Lo Porto confermerà di conoscere Mariano Tullio Troìa. Ne parla come di “un uomo affascinante”, e ricorda di averlo incontrato “solo in certe occasioni”, giustificando la frequentazione con una lontana parentela.
Borsellino, le informative segrete e un interrogativo inquietante
Il nome di Alberto Lo Cicero non era ignoto al giudice Paolo Borsellino.
Anzi, secondo quanto riferisce Scarpinato, se ne stava occupando intensamente, tanto che i Carabinieri, il 10 e il 12 giugno 1992, redigono e inviano due informative alle procure di Palermo e Caltanissetta.
In quelle informative, Maria Romeo e Alberto Lo Cicero vengono indicati come fonti attendibili e riscontrate.
Il 15 giugno 1992, Paolo Borsellino partecipa a una riunione di coordinamento tra le due procure. Oggetto dell’incontro: proprio le rivelazioni di Lo Cicero.
Una partecipazione che lascia perplessi, perché Borsellino non aveva la delega per indagare sull’area di Palermo: l’otterrà solo la mattina del 19 luglio, poche ore prima della strage di via D’Amelio.
Perché allora era lì?
La domanda si fa ancora più inquietante alla luce di un appunto scritto di suo pugno, ritrovato in seguito. Borsellino scrive che, quando Lo Cicero inizierà ufficialmente a collaborare, dovrà essere interrogato prima dalla procura di Palermo, poi da quella di Caltanissetta.
Sarà ancora più inquietante quello che scrivono i carabinieri il 14 settembre del 1992 quando spiegano che Borsellino aveva raggiunto accordi per interrogare per primo Alberto Lo Cicero togliendolo alla procura di Caltanissetta che aveva però la titolarità delle indagini sulla strage di Capaci.
Un’inversione delle regole. Irrituale. Perché?
L’incontro segreto: Palazzo di Giustizia, ore 19
C’è un momento cruciale, raccontato da Maria Romeo e confermato da Roberto Scarpinato, che cambia tutto.
Paolo Borsellino incontra personalmente Alberto Lo Cicero.
Non in aula, non in una sala interrogatori. Ma a Palazzo di Giustizia. Un colloquio che pare, dal racconto che ne viene fatto, sia durato cinque ore.
Lo Cicero non era ancora, su un piano squisitamente formale, un collaboratore di giustizia quindi Borsellino non poteva verbalizzare quello che Lo Cicero gli disse.
In anticamera, ad aspettare, c’è proprio Maria Romeo, testimone silenziosa di un incontro che avrebbe potuto cambiare la storia.
Durante quelle ore, Borsellino vuole sapere tutto:
chi era presente a Capaci?
con chi aveva parlato Lo Cicero?
cosa sapeva dei giorni precedenti alla strage?
Romeo racconta che Lo Cicero parlò di Stefano Delle Chiaie.
Parlò del ruolo di raccordo tra Roma e Palermo, della nuova organizzazione mafiosa che si muoveva nell’ombra, dei contatti inconfessabili che passavano proprio per quel nome: Delle Chiaie.
Secondo Romeo, Borsellino aveva già chiaro tutto il quadro.
Non c’erano solo i mandanti mafiosi. Non era solo Cosa Nostra.
C’era uno scenario più ampio, più torbido, più oscuro.
Dalle riunioni della strage all’attentato dell’Addaura
Lo Cicero non si era limitato a raccontare di riunioni e sopralluoghi a Capaci.
Aveva anche riferito della presenza di Delle Chiaie nei giorni precedenti alla strage, e dei preparativi per un attentato fallito: quello dell’Addaura, contro Giovanni Falcone.
L’ombra lunga dell’estremismo nero tornava a proiettarsi sull’autostrada, sui piani sotterranei, sui covi e i rifugi di boss e intermediari.
Perché Delle Chiaie non era nuovo a certi scenari.
Nel 1969, raccontano diversi collaboratori di giustizia, aveva partecipato — insieme a Julio Valerio Borghese, a Pierluigi Concutelli e ad altri esponenti di Ordine Nuovo — a riunioni sull’Aspromonte con la ’Ndrangheta, finalizzate a portare armi, denaro e competenze militari per azioni eversive.
Da lì, secondo molti, nacquero i moti di Reggio e il tentato golpe Borghese.
Ora, oltre vent’anni dopo, Stefano Delle Chiaie sembra riapparire In Sicilia. A Capaci. Poco prima di un’altra strage.
Informazioni che scompaiono e giornalisti sorvegliati
Nel 2022, il giornalista Paolo Mondani svela queste connessioni nella trasmissione Report.
Ne ricostruisce il filo. Lo Cicero, Romeo, Delle Chiaie, i Carabinieri. I verbali. Le informative. Le omissioni.
Subito dopo la messa in onda, succede qualcosa di inquietante:
Mondani viene pedinato dai servizi segreti
Viene intercettato.
E si scopre che le informative su Lo Cicero sono scomparse dagli archivi.
Sparite.
Ma la storia non finisce lì.
Un giorno, qualcuno gli recapita alcuni audio. Sono colloqui investigativi. Registrazioni che avrebbero dovuto restare segrete per sempre.
E cosa rivelano?
Lo scopriremo nella seconda parte del saggio, quando racconteremo come Maria Romeo, frustrata dall’inerzia delle indagini, decide di andare di persona dai Carabinieri.
È il 5 ottobre 1992. Da quell’informativa nasceranno degli arresti. Ma non, inspiegabilmente, un’indagine su Stefano Delle Chiaie.
Perché?
Guglielmo Bongiovanni