Stato e Mafia

Stato, mafia e depistaggi: la denuncia di Mario Ravidà

Dalle rivelazioni di Genchi sul ruolo dei servizi nella strage di via D’Amelio alla denuncia frontale di Ravidà: il racconto di uno Stato che trattava, depistava e proteggeva i suoi assassini.

C’è un filo nero che lega le stragi degli anni ’90, le trattative sottobanco, i depistaggi giudiziari e le voci messe a tacere. Un filo che attraversa Palermo, Roma, Caltanissetta e Catania, che passa per i ministeri, per le stanze dei servizi, per le caserme e perfino per i salotti del potere politico.

A questo filo – lungo, vischioso, pericoloso – si è avvicinato Gioacchino Genchi, un investigatore onesto che, nella sua solitudine, ha cominciato una tela fatta di misteri e verità indicibili. 

Genchi ha scoperto che dall’altra parte non c’erano solo mafiosi. Ma uomini con distintivo, con toga, con incarichi istituzionali.

E oggi, Mario Ravidà, ex sostituto commissario della DIA di Catania, quel filo lo prende tra le mani e lo mostra in pubblico. Lo fa con la forza di chi ha visto, capito e scelto di non tacere.

In questo articolo – che apre una serie dedicata anche alle rivelazioni di Genchi – ricostruiamo il suo atto d’accusa, punto per punto.

Mori, Ciancimino e il patto segreto con la mafia

«Mario Mori e i suoi uomini trattano con la mafia». Così inizia Ravidà, senza perifrasi. E spiega che a interloquire con Totò Riina non fu un semplice messaggero, ma Vito Ciancimino, ex sindaco mafioso di Palermo. Il più mafioso dei politici. Il più politico dei mafiosi.

Lo Stato – o meglio, una sua parte – cerca un accordo per mettere fine al “muro contro muro”, quello iniziato con gli omicidi eccellenti di Salvo Lima, dei cugini Salvo, e poi con le stragi di Falcone e Borsellino. Non era un’operazione di intelligence. Era una resa in piena regola.

Strategia della tensione, versione anni ’90

Secondo Ravidà, le sentenze più recenti – dalla ‘ndrangheta stragista al processo sul depistaggio di via D’Amelio – raccontano una verità sconvolgente: la mafia non era sola. Operava in sinergia con entità esterne, per destabilizzare il Paese e poi ricomporlo sotto nuove forme.

Il progetto? Il caos, le bombe, le paure. Poi il potere, quello nuovo, con l’abito rassicurante della legalità. Ecco allora Forza Italia, la Seconda Repubblica che nasce dalle ceneri fumanti della Prima. E dietro le quinte: Gladio, Falange Armata, eversione nera, servizi, massoneria.

Il caso Scotto e la rimozione di Genchi

L’ispettore Ravidà tira in ballo anche un’ex funzionario di polizia Gioacchino Genchi che rappresenta, a nostro modesto parere e senza timore di smentita il punto principale da cui partire per provare quegli strani intrecci “depistanti” che popolano i corridoi delle istituzioni a cominciare dai palazzi deputati ad assicurare alla giustizia autori e mandanti della strage di via D’Amelio.

Esperto in telecomunicazioni, Genchi ha svolto un ruolo cruciale nelle indagini successive alla strage di via D’Amelio nella quale persero la vita il giudice Paolo Borsellino e cinque agenti della sua scorta. Attraverso l’analisi dei tabulati telefonici, Genchi scoprì anomalie significative che suggerivano l’esistenza di una rete di complicità esterne alla mafia, coinvolgendo apparati dello Stato.

Tra le sue scoperte più rilevanti vi fu l’individuazione di chiamate sospette tra numeri associati a Gaetano Scotto, mafioso condannato per la strage e utenze telefoniche situate presso il Castello Utveggio, sede di un centro di formazione del SISDE, il servizio segreto civile italiano. Queste rivelazioni alimentarono i sospetti su un possibile coinvolgimento di entità statali nell’attentato.

L’ispettore Ravidà non ha dubbi in merito alla caso Genchi: “la sua storia è da manuale: manuale di ciò che non dovrebbe mai accadere in uno Stato di diritto. Quando Genchi individua Gaetano Scotto – mafioso vicino ai servizi – chiede di continuare le indagini. Ma viene bloccato. Scotto viene arrestato prima del tempo, prima che emergano i suoi legami più scomodi. Il risultato? Le prove saltano, i fili si tagliano, il sistema si salva.

E Genchi? Rimosso, delegittimato, cacciato dalla Polizia. Perché stava facendo troppo bene il suo lavoro. Perché si era avvicinato a quel filo.

Scarantino, il fantoccio perfetto

Il “pentito” Scarantino non sa nulla. Non era lì, non c’entra niente. Ma diventa il centro di una colossale operazione di depistaggio, costruita da uomini dello Stato per proteggere i veri responsabili.

Nel frattempo, i Graviano, Madonia, Tutino – i nomi che contano davvero – rimangono al sicuro, protetti da un sistema che li usa e li nasconde.

Il palazzo fantasma e gli agenti rimossi

Il giorno dopo la strage di via D’Amelio, due agenti segnalano un palazzo in costruzione da cui probabilmente è stato azionato il telecomando dell’esplosivo. Ma quella relazione non entrerà mai nel fascicolo ufficiale.

I due agenti? Rimandati d’urgenza al loro reparto di Catania. La relazione? Scomparsa. Il palazzo? Dimenticato. I proprietari? I Graziano, legati ai Madonia e a Bruno Contrada. Il cerchio si chiude, e il silenzio è servito.

Riina non serve più: arriva Provenzano

Dopo la “cancellazione” del 41-bis (operata in una notte dal ministro Conso), Riina capisce che lo Stato non ha mantenuto i patti. E rilancia con le bombe: Milano, Roma, Firenze. Ma ormai è fuori controllo.

Serve un nuovo interlocutore. E quel nome è Bernardo Provenzano: garante, regista, moderatore. Il suo compito? Far arrestare gli “stragisti” e portare la mafia dentro un nuovo patto con lo Stato.

Lo scenario chee aveva appena cominciato a delineare Luigi Ilardo al colonnello veneto Michele Riccio

Il covo di Riina e la prova sepolta

Quando Riina viene catturato, la regola dice: si perquisisce il covo. Ma il covo non viene toccato. Perché? Perché lì dentro c’è la prova definitiva della trattativa: forse il “papello”, forse le registrazioni, forse molto di più.

Non si può rischiare che tutto venga alla luce. E allora si chiude un occhio. Anzi, due. Si chiude la porta. E si chiude la bocca.

Un racconto che non possiamo più ignorare

Le parole di Mario Ravidà non sono teorie. Sono una testimonianza diretta, maturata in anni di indagini, operazioni, verità viste e mai dette. Sono un atto di accusa preciso contro chi ha scelto di tradire.

E sono anche il ponte che ci conduce a una figura come Gioacchino Genchi, che nei prossimi post approfondiremo: la sua inchiesta, la sua cacciata, la sua verità.

Perché la domanda non è “chi ha messo le bombe”.

La vera domanda è: chi doveva proteggerci… e non lo ha fatto.

A breve la seconda parte con il caso “Genchi” un documento chee ogni cittadino dovrebbe vedere

Guglielmo Bongiovanni

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