Perchè non l’hanno voluto prendere?

La Mancata Cattura di Bernardo Provenzano

Apriamo con questo primo lavoro una serie di articoli sulla vicenda più drammatica che il colonnello Riccio e il pentito Luigi Ilardo ebbero a vivere dopo l’incontro che Ilardo ebbe, il 31 ottobre del 1995, a Mezzojuso con il capo di Cosa nostra Bernardo Provenzano.

Una tragica vicenda che, a nostro modesto parere, ebbe il suo culmine il 10 maggio del 1996 quando in via Quintino Sella nove colpi d’arma da fuoco chiusero la bocca per sempre a Luigi Ilardo.

Ricostruiremo la vicenda raccontandola in diversi fasi attenendoci sempre a documenti ufficiali e a dichiarazioni rese dai protagonisti evidenziando le contraddizioni e le presunte omissioni da chi aveva il compito istituzionale di ricercare e catturare i latitanti.

L’occasione mancata

Tutto ebbe inizio il 29 ottobre del 1995 quando, all’alba, Luigi Ilardo telefona al colonnello Riccio e con tono di voce soddisfatta fa capire al colonnello veneto che la mattina del 31 ottobre del 1995 avrebbe incontrato “Binnu u tratturi”, divenuto di fatto il capo di Cosa nostra dopo l’arresto di Totò Riina.

“Ce l’abbiamo fatta” sono le parole che Luigi Ilardo ebbe a sussurrare al Riccio.

Uno degli obiettivi promessi dall’infiltrato Ilardo era a portata di mano dopo sarebbe dovuto arrivare il tempo del pentimento ufficiale e con esso le verità sugli intrecci tra mafia, massoneria, istituzioni deviate, sul fallito attentato dell’Addaura contro il giudice Falcone, su Capaci, sull’omicidio di Piersanti Mattarella, sull’omicidio del piccolo Claudio Domino, sull’omicidio di Antonino Agostino e della moglie Ida, sui rapporti che Cosa nostra stava cominciando a tessere con ambienti dell’eversione nera e con alcuni partiti politici, in particolare, Luigi Ilardo fu il primo a fare il nome di Marcello Dell’Utri condannato in via definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa.

Questo era l’ambiente nel quale aveva gravitato Luigi Ilardo e di questo ambiente ci avrebbe potuto svelare alcuni misteri che avrebbero potuto cambiare la storia del nostro Paese.

La telefonata dell’indifferenza

Ma torniamo a quella mattina del 29 ottobre 1995.

In particolare al racconto che ne fece il colonnello Riccio che ancora incredulo telefona al suo superiore gerarchico, all’epoca vice comandante operativo dei Ros, Mario Mori, per comunicargli la notizia che Ilardo avrebbe incontrato Bernardo Provenzano.

Facciamoci ispirare sempre dal racconto del colonnello veneto e proviamo a dare ritmo a questa storia che sembrerebbe dipinta per una delle tante fiction italiane ma che invece è una drammatica storia realmente accaduta.

Il vice capo dei Ros, Mario Mori, nell’apprendere la notizia che Ilardo stava per incontrare Provenzano non “manifestò nessun particolare interesse”, tanto che Riccio, l’indomani, 30 ottobre 1995, sì recò presso la sede dei Ros, a Roma, per incontrare Mori e Obinu, all’epoca Comandante del Raggruppamento operativo speciale dei carabinieri, struttura specializzata alla ricerca e cattura dei latitanti [1]

Tutto sembrava volgere al meglio: Provenzano era in trappola.

Ilardo sapeva il fatto suo, il colonnello Riccio, del resto, aveva dato prova di indubbia professionalità, vista la sua esperienza maturata non solo nella ricerca dei latitanti ma anche nella lotta contro il terrorismo avendo servito nella squadra del compianto generale Carlo Alberto Dalla Chiesa.

Sullo sfondo c’erano tutti gli ingredienti per un’operazione che avrebbe potuto cambiato la storia della lotta contro le mafie.

“Ci pensiamo noi”

Il colonnello Riccio, entusiasta per quello che stava per accadere e dopo aver detto che all’incontro con Provenzano avrebbe partecipato anche Salvatore Ferro, propose subito al vicecomandante Mori che avrebbe potuto fare ricorso ai segnalatori GPS che l’ambasciata americana era pronta a mettere a loro disposizione e aggiunse che c’era personale alla Dia già “addestrato e pronto per l’operazione”.

Non fece in tempo di finire, da quanto ci racconta Riccio, che Mori rifiutò subito la proposta

“No, no, no, facciamo tutto noi, abbiamo gli strumenti, i materiali di De Caprio” (il famigerato capitano Ultimo) [2]

e come scrivono i giudici della sentenza di primo grado sull’omicidio Ilardo, il vicecomandante Mori aggiunse che

“era necessario che questo primo incontro dell’Ilardo con Provenzano servisse a porre le basi per un successivo incontro, poiché non c’era la possibilità di organizzare tempestivamente l’intervento volto alla cattura del latitante”[3]

Perché non arrestare subito Provenzano?

Riccio non ha dubbi nell’affermare che l’operazione di cattura del Provenzano sarebbe stata possibile.

Pur dando per buono lo scenario prospettato dai vertici del Ros romano nella posizione, per così dire, attendista, finalizzata, soprattutto, a salvaguardare l’Ilardo cosa che sarebbe venuto meno se il boss corleonese fosse stato tratto in arresto dinanzi all’informatore catanese, qualcosa in questa storia non torna!

Uno scenario ricco di dubbi e misteri

Lo scenario descritto non dipana i nostri dubbi perché qualcosa di inspiegabile, se ci è concesso il termine, stava per accadere.

Trasformare il colonnello Riccio a semplice spettatore di un thriller che purtroppo non ebbe un lieto fine.

Su questa aspetto della vicenda ci viene in soccorso la figlia di Luigi Ilardo, Luana Ilardo, sentita dalla Commissione antimafia romana il 16 novembre del 2011.

La Ilardo precisa che visto che il

“Ros non disponeva del materiale tecnico necessario si sarebbe soltanto effettuato un pedinamento dell’Ilardo”[4]

e che il compito assegnato al colonnello Riccio, come precisa lo stesso colonnello veneto

“sarebbe stato solo quello di riferire le notizie acquisite dall’Ilardo, circa l’incontro con Provenzano, solo ai vertici del Ros romano, Mori e Obinu”[5]

a cui deve aggiungersi un terzo personaggio che entra in scena: l’allora capitano del Ros di Caltanissetta, Antonio Damiano, che dipendeva dall’allora colonnello Mori e all’epoca dal maggiore Obinu e che fu incaricato da Mori di seguire la vicenda.

Quindi da una parte abbiamo i vertici dei Ros: Mario Mori e Mauro Obinu e il loro sottoposto Antonio Damiani; dall’altra il colonnello Riccio che, a quanto pare, non doveva assumere nessuna iniziativa; che non aveva a disposizione nessun personale e che doveva occuparsi di riferire e gestire solamente i rapporti con Ilardo.

Qualcosa ancora in questa storia non ci torna!

Perché Riccio doveva riferire solo a Mori e Obinu?

Perché al colonnello Riccio venne ordinato di non redigere nessuna relazione di servizio su quanto acquisito da Ilardo?

Perché tenere fuori la magistratura in un’operazione che avrebbe potuto cambiare il corso della storia con la cattura di Bernardo Provenzano?

Perché disegnare uno scenario di sola “operazione di polizia giudiziaria volta alla cattura dei latitanti di cui non era necessario” chiamare in causa il capo della procura di Palermo Giancarlo Caselli?

E perché venne ordinato a Riccio di “non riferire alcuna notizia in merito ai rapporti tra Cosa Nostra e l’ambiente politico, inclusi quelli che aveva in corso Ilardo?

Quello che è certo e che il colonnello Riccio non condivise questo scenario prospettategli e continuò a inviare relazioni di servizio alla sede centrale dei Ros affinché venissero inviate al magistrato così come il Riccio aveva concordato con il capo della procura palermitana Giancarlo Caselli.

Del resto Ilardo aveva creato delle premesse sul suo pentimento di ben altro livello: catturare Bernardo Provenzano, individuare i mandanti delle stragi del 1992-1993, conoscere l’attività criminale di Cosa Nostra e dei suoi rapporti con la politica, la massoneria, i servizi segreti e con l’area dell’eversione nera.

Noi cercheremo di offrire ai nostri lettori lo scenario, il contesto di quello che successe il 31 ottobre del 1995 a Mezzojuso e soprattutto quello che accadde dopo la morte di Ilardo evidenziando contraddizioni nelle deposizioni, presunte omissioni nel comportamento di strutture deputate alla cattura dei latitanti come, del resto, sono state [6] evidenziate dalle carte processuali sempre rispettando le sentenze che i tribunali hanno emesso come l’assoluzione dell’allora capo e vice capo dei Ros Mario Mori e Mauro Obinu dall’accusa di aver favorito la latitanza di Bernardo Provenzano.

Ma, torniamo alla mattina del 31 ottobre del 1995, il fatidico giorno in cui alle 8 del mattino Ilardo si presenta a Mezzojuso e gli uomini del Provenzano, Salvatore Ferro e Lorenzo Vaccaro si presenteranno all’appuntamento per essere raggiunti poi da un terzo uomo, Giovanni Napoli, che lo condurrà fisicamente a bordo della propria auto Ford Escort nel rifugio di “Binnu u tratturi”

Chi erano questi uomini? Perché non furono mai sottoposti ad indagini pur conoscendone i nomi e cognomi?

Chi coprì la rete di favoreggiatori che di cui Ilardo aveva fatto nomi e cognomi?

Lo scopriremo insieme!!!

Continua

Note

[1] Rapporto Grande Oriente del Raggruppamento Operativo Speciale Carabinieri del 30 luglio 1996; vedi anche Michele Riccio e Anna Vinci, La strategia parallela, Zolfo, 2024;

[2] Sentenza sull’omicidio Ilardo, emessa dalla Corte d’assise di Catania il 21 marzo del 2017;

[3] idem;

[4] Audizione Luana Ilardo presso la Commissione parlamentar antimafia del 16 novembr 2011;

[5] Sentenza sull’omicidio Ilardo, emessa dalla Corte d’assise di Catania il 21 marzo del 2017; vedi anche Michele Riccio e Anna Vinci, La strategia parallela, Zolfo, 2024;

[6] La sentenza del Tribunale di Palermo del 17 luglio 2013 nel procedimento penale promosso contro Mori e Obinu imputati del reato di concorso in favoreggiamento aggravato per avere aiutato Provenzano ed altri affiliati mafiosi che ne gestivano la latitanza, al di là dell’assoluzione dei due imputati ha osservato che “nell’arco di tempo oggetto della contestazione siano state adottate dagli imputati scelte operative discutibili, astrattamente idonee a compromettere il buon esito di una operazione che avrebbe potuto procurare la cattura di Bernardo Provenzano” e che “la condotta attendista prescelta con il concorso degli imputati sia sufficiente a configurare, in termini oggettivi, il reato addebitato“. Pertanto “benché non manchino aspetti che sono rimasti opachi, la compiuta disamina delle risultanze processuali non ha consentito di ritenere adeguatamente provato – ad di là di ogni ragionevole dubbio, come richiede l’art. 533 c.p.p. – che le scelte operative in questione, giuste o errate, siano state dettate dalla deliberata volontà degli imputati di salvaguardare la latitanza di Bernardo Provenzano o di ostacolarne la cattura. Ne consegue che i medesimi
devono essere mandati assolti con la formula perché il fatto non costituisce reato, che sembra al Tribunale quella che più si adatti alla concreta fattispecie”.