“La verità zittita: ‘Hanno indagato su di me, non sugli esecutori di Ilardo”
Otto mesi in un cassetto. È il tempo in cui una relazione urgente su possibili esecutori dell’omicidio di Luigi “Gino” Ilardo resta ferma negli uffici della DIA di Catania. Poi, quando finalmente arriva in Procura, non segue alcuna delega d’indagine. Passano anni, si pente la fonte che aveva parlato per prima — Eugenio Sturiale — e solo allora l’istruttoria si rimette in moto, fino alle condanne dei mandanti mafiosi. Nel mezzo, passaggi che gridano anomalia: la notifica del differimento pena recapitata a casa della sorella di Giuseppe Madonia, un atto capace di allertare l’organizzazione; una relazione “scomparsa” dagli archivi, salvata solo da un protocollo in uscita. Il funzionario della Dia che indagava sull’omicidio Ilardo che finisce sotto la lente di ingrandimento degli investigatori.
In questa intervista Mario Ravidà, ex sostituto commissario della DIA, ricuce quei vuoti con nomi, date e responsabilità istituzionali rimaste senza risposta. Perché la verità su Ilardo non è solo questione di colpevoli: è anche la storia di ciò che non si è voluto — o saputo — fare.
D. Ravidà, partiamo dall’inizio: quando emergono i primi elementi nuovi dopo l’omicidio Ilardo?
R. A cinque anni dal delitto, ricevo da Eugenio Sturiale — che più avanti diventerà collaboratore di giustizia — una notizia precisa: mi indica chi sarebbero stati gli esecutori materiali. Redigo immediatamente una relazione di servizio e la consegno all’Ufficio DIA di Catania
D. Che fine fa quella relazione?
R. Rimane otto mesi in un cassetto, senza che venga avviata alcuna attività investigativa sui soggetti segnalati. E parliamo della DIA di Catania che aveva lavorato con il colonnello Michele Riccio nei periodi in cui era alla DIA: quindi conosceva perfettamente chi fosse Ilardo e quali operazioni avesse consentito di fare.
D. Cosa accade dopo le sue insistenze?
R. Solo dopo mie pressanti sollecitazioni, l’Ufficio decide di trasmettere la relazione in Procura a Catania.
D. La Procura apre subito un fascicolo di indagine?
R. No. Pur avendo ricevuto una notizia di reato chiara e circostanziata, non rilascia la delega necessaria per indagare sui nominativi indicati, nonostante si sapesse chi fossero e a quale gruppo mafioso appartenessero.
D. Quando si sblocca la situazione?
R. Molti anni dopo. Trascorsi altri dieci anni da quell’episodio, Sturiale si pente formalmente e il dott. Pasquale Pacifico avvia una istruttoria sui fatti. Da lì si arriva al processo e alla condanna degli autori del delitto, nonché all’individuazione e condanna dei mandanti mafiosi.
D. In quella fase emergono anche responsabilità istituzionali?
R. Dalle attività istruttorie e dal processo emergono ritardi e omissioni. Cito un fatto gravissimo: la notifica dell’atto di differimento pena a Ilardo venne effettuata a casa della sorella di Giuseppe Madonia. Un atto che di fatto allertò la sua famiglia mafiosa sull’ipotesi — allora concreta — che Ilardo potesse collaborare con i Carabinieri e, in particolare, con il colonnello Riccio. Ricordo che Giuseppe Madonia verrà poi condannato come mandante mafioso del delitto Ilardo.
D. Omissioni e silenzi: cosa è accaduto davvero?
R. Questa gente che ha omesso e ritardato non ha fatto nulla. Né per me né per la giustizia. E oggi il silenzio istituzionale è un’ulteriore colpa. Quando Sturiale si pente, resto solo a perorare questa causa: solo nel mio Ufficio e solo anche in Procura. È un dato che parla da sé.
D. È vero che a un certo punto si è indagato persino su di lei?
R. Sì. So che la Squadra Mobile di Catania ha sentito alcuni miei colleghi della DIA per capire che tipo di rapporto avessi con Sturiale. Eppure avevo fornito centinaia di relazioni di servizio che spiegavano motivi e finalità di giustizia del perché lo sentissi e lo incontrassi: era compito istituzionale per chi appartiene alla DIA. Invece di agire sulle notizie, si è spostato il faro su chi le portava.
D. Torniamo alla sua relazione: com’è stata trattata a livello documentale?
R. Quando vengo interrogato, la Procura mi comunica che non c’è traccia della mia relazione nei loro atti. Per fortuna quella relazione, prima di partire dalla DIA verso la Procura, era stata protocollata in uscita dalla DIA. Senza quel protocollo, rischiavo di non essere creduto — nonostante Sturiale avesse dichiarato di avermi notiziato anni prima — e sarei potuto finire in un brutto quarto d’ora.
D. Che cosa ci dice, nel complesso, questa sequenza di fatti?
R. Che, in quella fase, mancò l’interesse istituzionale a approfondire tutte le circostanze, le responsabilità e le modalità del delitto Ilardo. Le condanne ai mandanti mafiosi sono arrivate, ma il quadro non è completo: i mandanti “altri” — se ci sono — restano ignoti.
D. Qual è, oggi, la priorità?
R. Non archiviare la memoria. Tener vivo ciò che non ha funzionato: le relazioni ferme nei cassetti, le deleghe mancate, gli atti che scompaiono, le notifiche improprie. Sono fatti che parlano e spiegano perché la verità su Gino Ilardo sia arrivata a pezzi.
D. Dire la verità oggi: dovere, rimorso, responsabilità.
R. Dire la verità — come è sempre stata detta in ogni sede processuale — è un dovere istituzionale. Chi non ha fatto nulla, per colpa o per dolo, dovrebbe almeno provare un rimorso morale. Ma temo che a molti interessassero solo le carriere: di rimorsi non sanno neppure cosa siano. Se no, avrebbero dichiarato subito la verità e riconosciuto i propri limiti.
D. Un ultimo messaggio ai lettori che seguono questa storia.
R. Continuate a chiedere conto. Le istituzioni devono rispondere anche dei tempi e dei modi dell’azione investigativa. È l’unica strada perché tutta la verità — anche quella scomoda — venga a galla.
Alla fine, resta una verità che brucia più delle sentenze:
Ravidà che finisce nel mirino degli investigatori; una relazione tenuta per otto mesi in un cassetto; una delega ad indagare mai partita; una notifica recapitata dove non doveva, una relazione “scomparsa” che sopravvive solo perché protocollata in tempo dall’ex sostituto commissario della Dia Ravidà. Non sono dettagli, sono crepe di sistema. Hanno ritardato la giustizia, hanno esposto un uomo già nel mirino, hanno permesso che la storia di Ilardo arrivasse a noi a brandelli.
Le condanne ai mandanti mafiosi ci sono state. Ma la domanda che conta — chi ha permesso, coperto, ignorato? — continua a rimbalzare tra uffici, firme, omissioni. È qui che la memoria diventa dovere civile: non per coltivare rancori, ma per chiedere conto dei ritardi, delle inerzie, delle scelte. Perché se la verità viene diluita nei passaggi di mano, tradita dai silenzi e svuotata dalla burocrazia, allora nessun processo basterà a restituire quello che è stato tolto.
Gino Ilardo non è solo un nome. È la misura di quanto lo Stato sappia — o voglia — proteggere chi sceglie di stare dalla sua parte. Fino a quando le zone d’ombra resteranno intatte e i mandanti “altri” — se ci sono — senza volto, questa vicenda non potrà dirsi chiusa. E ognuno di quei giorni persi, di quelle carte ferme, resterà una colpa che non scade.
Guglielmo Bongiovanni