Non c’è futuro senza memoria
L’ex commissario DIA Mario Ravidà torna alla carica: “La verità è stata barattata, calpestando la memoria dei giusti”
“Molti si chiederanno il perché denuncio ancora, dopo tanto tempo, cose che probabilmente non interessano più a nessuno e che mi porterebbero solo problemi.”
Mario Ravidà
Il titolo è un grido. Una dichiarazione di guerra all’oblio. E anche una promessa di coerenza e verità. Non c’è futuro senza memoria, scrive l’ex commissario della DIA Mario Ravidà, che rompe ancora una volta il silenzio con un documento destinato a far discutere. Un atto civile, personale e politico insieme, che denuncia la continuità del potere mafioso in Italia e il ruolo di una parte delle Istituzioni che — nel momento cruciale della storia repubblicana — avrebbe preferito il compromesso alla giustizia, la trattativa alla verità.
“Credo di avere conservato ancora molto della mia coscienza civile”, afferma Ravidà. E con quella coscienza come unica arma, torna a scavare nella memoria collettiva, con nomi, dinamiche e accuse che pesano come pietre.
Una mafia “utile” e una da sacrificare
Il cuore della denuncia è una lucida, amara analisi delle strategie adottate dallo Stato italiano negli anni più bui della lotta a Cosa nostra. “Una sola parte di mafia (quella di Provenzano) non viene toccata e collabora con le Istituzioni ‘deviate’ se così vogliamo chiamarle”, scrive Ravidà.
Dall’altra parte c’era Riina, il capo indiscusso della mafia stragista che per anni — sostiene l’ex commissario — aveva stretto patti e accordi con componenti dei partiti politici della Prima Repubblica.
Ma quando arriva il cambio di fase, con l’azione di Mani Pulite e la frattura tra Prima e Seconda Repubblica, Riina si sente abbandonato. “Si sente tradito”, scrive Ravidà, “perché subì le pesanti condanne all’ergastolo a seguito del maxiprocesso instaurato da Falcone e Borsellino”.
Il risultato fu devastante: “Sferra le azioni di minaccia, omicidiarie e stragiste contro lo Stato che prima aveva usufruito dei suoi servigi e poi lo aveva abbandonato”.

La trattativa che non si doveva sapere
Lo Stato, stretto tra il ricatto e il sangue, avrebbe tentato un accordo. “Cercò di sistemare questo contrasto con Riina provando a farlo desistere dalla sua azione criminale”, ma la trattativa fallisce.
“Riina non accetta”, prosegue l’ex commissario. E anzi rilancia: “Si sono fatti sotto – dice -, ma ci vuole un incentivo”. L’incentivo è il sangue. Le bombe. Le minacce. Le stragi.
Ed è a quel punto che, secondo Ravidà, si cambia cavallo. Si volta pagina. O meglio, si gira faccia “Lo Stato si sarebbe accordato con la parte non stragista e trattativista rappresentata in quel momento da Provenzano, e forse anche da Matteo Messina Denaro”. In cambio dell’arresto dei vecchi boss, si sarebbero garantite impunità, mancati arresti, agevolazioni carcerarie.
Un equilibrio cinico, ma efficace: “Cadono in quel momento storico i latitanti da decenni, come Riina stesso, Santapaola, Bagarella e molti altri componenti della cupola”, scrive Ravidà. “Lo confermerebbe il fatto che vengono agevolati con la mancata cattura di Provenzano, dal lato di Palermo e di altri capi mafia vicini alle posizioni trattativiste che avrebbe contribuito alle “proposte di impunita” o di “agevolazioni carcerarie” dando in cambio la “testa” degli stragisti, nell’altra parte dell’Isola”
Le occasioni perdute (e forse volontariamente mancate)
Il racconto si fa inquietante quando si parla di covi non perquisiti e latitanti sfuggiti per un soffio.
“Questo spiegherebbe la mancata cattura di Provenzano a Mezzoiuso”, annota Ravidà. E aggiunge: “La mancata perquisizione nel covo di Riina dove, a dire di qualcuno, vi erano le prove della collusione dei politici e il famoso papello”.
Quel documento — mai trovato — conteneva le richieste di Cosa nostra allo Stato. “Controproposte che non potevano essere accettate come voleva Riina (tutto e subito), perché si sarebbe rivelato all’opinione pubblica tutto il contesto di patti, proposte e trattative”.
Eppure qualcosa lo Stato concesse: in una sola notte, il Ministro Conso revocò il 41bis a oltre 300 mafiosi detenuti. Una resa. Una tregua. Un accordo mai ammesso, ma reso evidente dai suoi effetti.


Chi sapeva troppo: Attilio Manca e Luigi Ilardo, due morti che lo Stato non ha voluto proteggere
Nel suo j’accuse civile, l’ex commissario della DIA Mario Ravidà non si limita a parlare di strategie, trattative e patti oscuri. C’è un passaggio nel suo documento che si fa personale, doloroso, e che grida vendetta con una lucidità disarmante. È il momento in cui pronuncia due nomi: Attilio Manca e Luigi Ilardo. Due uomini, due verità scomode, due morti che — secondo Ravidà — non potevano vivere.
“Attilio Manca, come Ilardo, non poteva vivere perché se avesse parlato, avrebbe coinvolto chi lo contattò per curare e addirittura operare in Francia il Provenzano.”
In una sola frase, l’ex commissario squarcia il velo che da anni protegge una delle verità più scomode della storia recente italiana: la protezione garantita dallo Stato a Bernardo Provenzano e il costo umano che questa protezione ha comportato.
Il dottore che vide Provenzano
Attilio Manca era un giovane urologo di Barcellona Pozzo di Gotto. Brillante, stimato, destinato a una carriera luminosa. Ma viene trovato morto nel 2004, in circostanze che da subito appaiono sospette: overdose, si dirà. Ma i suoi familiari non ci credono. E nemmeno molti investigatori, tra cui Mario Ravidà.
Secondo una ricostruzione che l’ex commissario rilancia con forza, Manca sarebbe stato coinvolto — suo malgrado — nella cura segreta di Bernardo Provenzano durante la sua latitanza. “Il protetto dallo Stato Provenzano”, lo definisce Ravidà, sostenendo che fu proprio Manca a visitarlo e persino a operarlo in Francia per un tumore alla prostata. Se fosse tornato a parlare, avrebbe potuto raccontare troppo. Ed è per questo, lascia intendere Ravidà, che non è mai tornato.
“Attilio Manca non poteva vivere. Se avesse parlato, avrebbe coinvolto chi lo contattò per curare Provenzano.”
Parole pesanti, che alludono a livelli alti, insospettabili. E che ripropongono l’interrogativo più inquietante di quella vicenda: chi ha protetto Provenzano durante la sua latitanza? E quanti sono morti per proteggere quella protezione?
L’infiltrato sacrificato
Accanto a Manca, nel pantheon delle vittime dimenticate, c’è Luigi Ilardo. Un ex mafioso che aveva deciso di collaborare con i Carabinieri e che fu avvicinato proprio dal colonnello Michele Riccio per contribuire alla cattura di Provenzano. Ilardo sapeva tutto: covi, spostamenti, nomi. Ma venne assassinato a Catania il 10 maggio 1996, pochi giorni prima della sua formalizzazione come collaboratore di giustizia.
Per Mario Ravidà, anche in questo caso il movente è chiaro: Ilardo stava arrivando troppo vicino alla verità. E quella verità non si poteva permettere che venisse alla luce.
“Come Ilardo, non poteva vivere.”
L’eliminazione di Ilardo, nella lettura di Ravidà, si inserisce nel contesto di un accordo sotterraneo tra apparati dello Stato e la mafia “trattativista”. Un equilibrio che doveva essere mantenuto a qualsiasi costo. E se qualcuno, come Ilardo, minacciava di romperlo, andava rimosso. Fisicamente.
Le stragi del continente e la strategia della tensione
Le bombe di Roma, Firenze, Milano non sarebbero state frutto di pura follia. Ma parte di una strategia che affonda le radici negli anni ’60-’70-’80. “Stragi per instaurare nell’opinione pubblica la convinzione che cambiando potere politico, la Nazione sarebbe entrata in uno stato di caos”, scrive Ravidà. Una forma aggiornata della strategia della tensione: usare la paura per indirizzare la politica e consolidare poteri.
Tutto ciò, secondo Ravidà ha prodotto: l’impunita’ dei mafiosi legati a Provenzano e forse anche quella di Matteo Messina Denaro; la fine delle stragi e delle minacce con l’arresto della componente mafiosa della cupola di Riina e la continuazione di uno stesso potere politico in Italia, sebbene con partiti e uomini dal nome e con bandiere di partito diverse dei precedenti componenti della prima Repubblica ma, nella sostanza, la stessa cosa di prima, cambiando solo i referenti mafiosi e cioe’ da Riina a Provenzano.
Tutto è cambiato, perché nulla cambiasse
Alla fine, l’accusa è spietata. “La continuazione di uno stesso potere politico in Italia, sebbene con uomini e partiti diversi”, ma con le stesse logiche e le stesse connivenze.
E qui l’ex commissario affonda il colpo: “Quello che non accetterò mai è che tutto questo avviene calpestando le memorie delle vittime”. Di chi ha creduto in uno Stato giusto. Di chi ha sacrificato la vita pensando di combattere il male, non di servirlo.
Il silenzio degli innocenti
“Molti di tali sopravvissuti, per mantenere e sviluppare le loro carriere, si sarebbero accordati con il nuovo potere politico, che nuovo non lo era per nulla”. È la conclusione amara di Ravidà. Non tutti sono stati uccisi. Alcuni hanno scelto il silenzio. Altri no!
Non c’è futuro senza memoria. E Mario Ravidà questa memoria la tiene viva con ostinazione. Come chi sa che senza verità, la giustizia è solo apparenza.