Lillo Zucchetto: memoria di un coraggio senza tempo

“Lo uccise la mafia. Lo dimenticò lo Stato?”

La storia di Lillo Zucchetto, il poliziotto che voleva arrestare i boss. E finì sotto i colpi di Cosa Nostra.

Una generazione di eroi senza volto

Ogni anno, a luglio, l’Italia ricorda, giustamente, Paolo Borsellino. Ma se vogliamo davvero onorarlo, dobbiamo guardare anche indietro, ai volti meno noti ma non meno valorosi di chi costruì, con lui, quel pezzo di Stato che la mafia cercò con ogni mezzo di abbattere.
Era una stagione irripetibile, quella vissuta dalla Squadra Mobile di Palermo sotto la guida del commissario Antonino “Ninni” Cassarà, ucciso nel 1985. Una squadra fatta di ragazzi giovani, determinati, coraggiosi. Tra loro c’era anche Calogero Zucchetto, per tutti Lillo.
Un agente semplice, senza gradi né ribalte. Ma la sua intuizione, la sua ostinazione, e il suo amore per la divisa lo portarono nel cuore del conflitto tra Stato e mafia. A soli 27 anni, venne assassinato con cinque colpi alla testa in via Notarbartolo, a Palermo. Era il 14 novembre 1982.

Giovane, onesto, poliziotto per scelta

Zucchetto si era arruolato giovanissimo nella Polizia di Stato, e per un periodo era stato assegnato alla scorta del giudice Giovanni Falcone. Erano anni terribili per Palermo, quando ogni giorno si contavano omicidi eccellenti e cadaveri per strada. L’Unità, in quei giorni, paragonava Palermo a Beirut.
Ma Lillo non si tirò mai indietro. Dopo l’esperienza con le scorte, fu trasferito alla Squadra Mobile, e divenne parte integrante della sezione più pericolosa e cruciale: la Catturandi, quella che inseguiva i boss latitanti di Cosa Nostra nei territori ostili delle borgate palermitane.
Era un poliziotto d’altri tempi, dicevano i colleghi. Uno che preferiva le strade agli uffici, le intercettazioni alle pratiche, gli appostamenti al telefono. Cercava, pedinava, osservava. Con una Vespa, un taccuino e un binocolo.

La mafia lo conosceva. E lo temeva.

Nel 1982 Palermo era attraversata da una guerra di mafia senza precedenti. Il nuovo ordine imposto dai Corleonesi stava falcidiando boss storici e servitori dello Stato. In questo contesto, Zucchetto si mosse come un segugio. Collaborò alla stesura del celebre rapporto “Greco Michele + 161”, documento chiave che gettò luce sui nuovi equilibri interni a Cosa Nostra.
Ma soprattutto, Lillo si mosse sul campo, nelle periferie calde come Ciaculli, roccaforte dei Greco. Fu proprio lì, durante un pattugliamento con Ninni Cassarà, che accadde l’irreparabile: incontrò tre mafiosi di primissimo piano, Pino Greco “Scarpuzzedda”, Mario Prestifilippo e Giuseppe Lucchese.
Si guardarono negli occhi. Lillo capì subito: “Mi hanno riconosciuto”, confidò a un collega. Ma non si fermò. Continuò ad aggirarsi nei quartieri, a raccogliere informazioni, a dare la caccia ai latitanti.

L’arresto mancato e la condanna a morte

Pochi giorni dopo quell’incontro, durante un appostamento a Ciaculli, Zucchetto individuò il latitante Salvatore Montalto. Era solo, senza rinforzi, e fu costretto a lasciarlo andare. Ma la segnalazione si rivelò preziosa: il 7 novembre 1982, una settimana prima della sua morte, Montalto venne arrestato nel corso di un’operazione guidata da Cassarà.
Quel colpo fu determinante. Ma la mafia non poteva tollerare un poliziotto così determinato e attivo sul suo territorio. E non poteva permettersi altri riconoscimenti. Così decise di eliminarlo.

L’agguato in via Notarbartolo

Era la sera del 14 novembre 1982. Lillo era appena uscito dal Bar Collica, in via Notarbartolo, dove aveva preso un panino. Mentre si avvicinava alla sua auto, fu raggiunto da cinque colpi di pistola alla testa. Lo colpirono alle spalle.
A sparare furono i tre che aveva incontrato giorni prima: Pino Greco, Mario Prestifilippo e Giuseppe Lucchese. Tre killer scelti, fedelissimi di Riina. La mafia colpiva chi la sfidava.
Subito dopo l’assassinio, cominciò il depistaggio. Si mise in giro la voce che fosse stato un delitto passionale, legato a “questioni di donne”. Una strategia di calunnia e delegittimazione ben nota, già usata contro altri uomini delle istituzioni.

La verità negata per vent’anni

Nonostante i tentativi di confondere le acque, i colleghi e gli amici di Lillo non credettero mai alla versione ufficiale. Tutti sapevano che era stato ucciso per il suo lavoro. Solo nel 2001 arrivò la verità giudiziaria: i tre killer furono identificati grazie alle dichiarazioni di numerosi collaboratori di giustizia, e Riina, Provenzano, Ganci e altri vertici della Cupola furono condannati come mandanti dell’omicidio.
La motivazione era chiara: Zucchetto rappresentava una minaccia troppo grande per gli equilibri mafiosi. Aveva messo piede nei santuari dell’omertà. Aveva guardato in faccia i boss. Aveva indicato la via alle future indagini.

Un’eredità dimenticata

A Lillo Zucchetto è stata conferita una Medaglia d’Oro al Valor Civile alla memoria. Ma la sua figura resta marginale nel racconto nazionale della lotta alla mafia. Nessun film. Nessuna fiction. Nessun altare civile.
Eppure, fu parte di quella generazione irripetibile di poliziotti e magistrati – da Montana a Cassarà, da Antiochia a Chinnici – che provarono davvero a colpire la mafia con strumenti d’indagine nuovi, con lo spirito di una rivoluzione civile.

Il dovere della memoria

Ricordare Zucchetto oggi significa restituirgli voce, dignità, spazio. Significa onorare un servitore dello Stato che non cercava gloria, ma giustizia. Che non aveva potere, ma verità.
Fu ucciso a 27 anni. Ma nei suoi pochi anni di servizio contribuì a costruire le basi di quello che sarebbe diventato il MaxiProcesso del 1986, il più grande atto d’accusa contro la mafia mai celebrato in Europa.
Calogero Zucchetto non è solo un nome inciso su una lapide. È un esempio. È un testimone. È un monito.

Loro hanno scelto. E noi?

Zucchetto, Cassarà, Antiochia, Montana. Erano giovani, erano brillanti, erano determinati. Avevano fatto una scelta: servire lo Stato. E l’hanno pagata con la vita.

Oggi più che mai, mentre una parte dell’antimafia sembra confusa, autocelebrativa, ripiegata su sé stessa, ricordare Lillo significa fare memoria vera. Non quella delle commemorazioni vuote, ma quella che si fa carne, voce, esempio.
Oggi, nel silenzio torbido delle mezze verità e dei tradimenti istituzionali, abbiamo lo stesso dovere: scegliere. Ricordare è il primo passo. Ma agire è l’unico modo per non tradirli.

Guglielmo Bongiovanni


🎥 Guarda il video: “Il delitto di Calogero Zucchetto”

Per approfondire la sua storia, abbiamo selezionato un video che racconta in modo chiaro e commovente le tappe dell’omicidio e le verità emerse anni dopo.

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