Peteano, la strage dimenticata della Repubblica
All’insegna di una Domenica per “Non dimenticare”.
Insieme al presidente dell’associazione culturale LiberaMente, Sergio Ceotto, ci siamo recati in una piccola frazione del comune di Sagrado, a Peteano, per rendere omaggio alle tre vittime di una strage dimenticata.
Un omaggio sentito da parte di un’associazione che opera nel mondo della scuola con l’obiettivo di alimentare la cultura della legalità tra i giovani, perché riteniamo che la memoria e la conoscenza sono gli strumenti più potenti contro l’indifferenza.
Un impegno che non si limita a parlare di mafie ma vuole anche far conoscere a un pubblico più vasto una delle stagioni più buie della storia repubblicana e del nostro territorio: quella che ha segnato profondamente il Veneto e l’intero Paese, passata alla storia come “Strategia della Tensione”.
Tre carabinieri — Antonio Ferraro, Donato Poveromo e Franco Dongiovanni — furono uccisi a Peteano in una notte del 1972 da un ordigno nascosto nel cofano di una Fiat 500 bianca.
Una strage che non si è consumata in una grande città, né in una banca, né su un treno: ma in un viottolo di campagna, al margine di tutto, in un luogo così remoto da sembrare estraneo alla storia.
Eppure, fu proprio in quella periferia che la storia della Repubblica svelò uno dei suoi volti più oscuri.
Peteano non è solo una ferita dimenticata. È la chiave di lettura di un sistema di menzogne, depistaggi e connivenze che per anni ha alimentato la strategia della tensione.
È la sola strage d’Italia di cui conosciamo i colpevoli, esecutori e mandanti insieme.
Eppure, è anche quella di cui meno si parla.
La notte del 31 maggio 1972
Era la sera del 31 maggio 1972.
Una telefonata anonima ai carabinieri di Gorizia segnalava un’auto sospetta abbandonata in una stradina poco fuori Peteano.
Una Fiat 500 bianca, con il parabrezza crivellato da quelli che sembravano fori di proiettile.
I militari intervennero. Il sottotenente Angelo Tagliari decise di aprire il cofano.
Non poteva sapere che quella leva era collegata a un detonatore a strappo.
L’auto, imbottita di esplosivo, saltò in aria.
Il boato squarciò la notte friulana.
Sul terreno restarono i corpi del brigadiere Ferraro, 31 anni, siciliano; del carabiniere Poveromo, 33 anni, lucano; e del giovanissimo Franco Dongiovanni, 23 anni, leccese.
Erano tutti sposati. La moglie di Ferraro era incinta.
Tagliari, protetto parzialmente dalla portiera, fu scaraventato a metri di distanza, perdendo una mano e riportando gravi ustioni.
Un attacco vile, senza rivendicazioni.
Una trappola preparata per uccidere uomini dello Stato, in un periodo in cui lo Stato sembrava non riconoscere più sé stesso.
L’inganno: depistaggi e piste false
Le indagini, invece di concentrarsi sui militanti di estrema destra, furono subito orientate verso Lotta Continua di Trento.
Un’invenzione, una menzogna costruita a tavolino.
A dirigere le indagini fu il colonnello Dino Mingarelli, comandante della Legione Carabinieri di Udine, su ordine del generale Giovanni Battista Palumbo, piduista e capo della Divisione Pastrengo.
Nel frattempo, gli ambienti di Ordine Nuovo, ben noti alle forze dell’ordine, restavano intoccabili.
Eppure, da mesi, nel Friuli, si ripetevano attentati dinamitardi di chiara matrice neofascista.
La pista politica fu volutamente ignorata.
Si preferì fabbricare un’altra verità: la cosiddetta “pista gialla”, non politica, costruita su presunti rancori personali verso l’Arma.
Sei goriziani furono arrestati nel 1973. Si fecero un anno di carcere.
Furono assolti solo nel 1979, dopo un processo definito “drammatico e sconcertante”.
Nel frattempo, prove decisive sparivano: i bossoli calibro 22 trovati vicino alla Fiat 500 — la stessa calibrazione della pistola che sarebbe poi comparsa in un altro episodio inquietante — furono fatti sparire, insieme ai verbali che ne attestavano il ritrovamento.
Ronchi dei Legionari: l’altro volto della stessa mano
Il 6 ottobre 1972, a Ronchi dei Legionari, un aereo civile diretto a Bari venne dirottato.
Il dirottatore era Ivano Boccaccio, anche lui ordinovista.
Il suo gesto si concluse in una sparatoria e nella morte dello stesso Boccaccio.
Nella sua mano, una pistola calibro 22.
Apparteneva a Carlo Cicuttini, altro uomo di Ordine Nuovo, segretario della sezione MSI di Manzano.
La voce della telefonata anonima di Peteano — lo si scoprirà anni dopo — era proprio quella di Cicuttini.
Da quel momento la verità cominciò a prendere forma, ma solo oltre dieci anni dopo verrà riconosciuta.
La verità di Vincenzo Vinciguerra
A squarciare il silenzio fu Vincenzo Vinciguerra, ordinovista, già protagonista di un lungo peregrinare tra Spagna, Cile e Argentina.
Nel 1979 decise di consegnarsi ai carabinieri.
Nel 1984 si assunse la piena responsabilità della strage di Peteano, dichiarandosi reo confesso.
Disse di aver agito “per combattere lo Stato dall’interno dello Stato stesso”.
Non cercò attenuanti, non chiese sconti.
Si proclamò “soldato politico” in una guerra sotterranea che — a suo dire — lo Stato stesso aveva voluto.
La Corte d’Assise lo condannò all’ergastolo.
Non fece appello.
Fu condannato anche Cicuttini, latitante in Spagna.
Va peraltro doverosamente segnalato che l’inchiesta accertò che il Movimento Sociale Italiano aveva finanziato Cicuttini con 32.000 dollari per sottoporsi a un intervento alle corde vocali e alterare la voce. La stessa registrata nella telefonata che attirò i carabinieri alla Fiat 500.
L’allora segretario del Msi Giorgio Almirante fu rinviato a giudizio per favoreggiamento ma beneficiò di un’amnistia prima del processo.
Il giudice Casson e la scoperta di Gladio
La verità processuale emerse solo negli anni Ottanta, grazie al giudice istruttore Felice Casson.
Fu lui a riaprire il caso, a smontare i depistaggi, a rivelare l’infiltrazione della loggia P2 e dei servizi segreti negli apparati dello Stato.
Proprio da quell’inchiesta nacque la scoperta di Gladio, la rete segreta “Stay Behind” sotto regia NATO.
A pochi chilometri da Peteano, ad Aurisina, era stato rinvenuto un “Nasco”, un deposito di armi ed esplosivi appartenenti alla struttura clandestina.
Casson sospettò che l’esplosivo della Fiat 500 provenisse proprio da lì.
Una deduzione che avrebbe legato in modo diretto la strage di Peteano alla strategia della tensione internazionale.
Depistaggi e responsabilità
Casson scoprì anche che i depistaggi non si erano fermati ai primi anni.
Il colonnello Mingarelli, il generale Chirico e il maresciallo Napoli furono condannati definitivamente per falsi e omissioni.
Anche il perito balistico del Tribunale di Venezia, Marco Morin, venne condannato per aver manipolato i risultati relativi all’esplosivo.
Lo Stato, ancora una volta, appariva diviso in due: quello che cercava la verità, e quello che la nascondeva.
Il “soldato politico” della Repubblica oscura
Da allora Vincenzo Vinciguerra è in carcere e rifiuta qualsiasi beneficio di legge.
Non vuole uscire.
Scrive, risponde ai giornalisti, parla nei processi.
È stato sentito nei dibattimenti per Piazza Fontana, Piazza della Loggia, Italicus, Bologna.
Al processo per la strage del 2 agosto 1980, quello che ha portato alla condanna di Paolo Bellini, Vinciguerra è stato chiamato a testimoniare tre volte.
La sua visione del mondo è quella di un uomo che, pur rinchiuso, non si considera vinto.
Ritiene lo Stato colpevole delle stragi e se stesso uno strumento consapevole di una guerra condotta “per ordine dei vertici”.
A lui si deve una delle definizioni più inquietanti e veritiere di quegli anni:
“Destabilizzare l’ordine pubblico per stabilizzare l’ordine politico.”
Una formula che sintetizza l’intera strategia della tensione, la logica della paura usata come strumento di governo, la creazione del nemico interno per difendere un equilibrio esterno.
Memoria e silenzio
Oggi, Peteano è un borgo silenzioso, immerso nel verde.
Nessuna grande lapide, nessun clamore mediatico.
Solo un piccolo monumento, tre nomi incisi nella pietra, e il ricordo di una notte che avrebbe dovuto cambiare per sempre la coscienza della Repubblica.
Invece, è rimasta una strage marginale, dimenticata nelle pieghe della storia.
Eppure, proprio da qui — da quel viottolo di campagna — prese forma l’unica verità limpida della stagione delle bombe: che dietro la violenza neofascista c’erano menti coperte, protezioni, poteri occulti.
Quando abbiamo deposto un fiore ai piedi del monumento, il silenzio di Peteano pesava più di qualsiasi parola.
Pesava come una condanna, come una domanda ancora senza risposta:
Chi doveva proteggerci, e invece ci ha traditi?
“L’ergastolano” di Paolo Morando
Per chi desidera comprendere fino in fondo la vicenda di Peteano con tutti i suoi risvolti processuali e l’enigma umano e politico di Vincenzo Vinciguerra, consigliamo la lettura del libro di Paolo Morando, “L’ergastolano” (Laterza, 2022).
Un saggio rigoroso e documentato che ripercorre non solo la strage del 31 maggio 1972, ma anche il lungo cammino giudiziario e morale del suo protagonista: un uomo che, pur riconosciuto colpevole, si è trasformato nel testimone più lucido della strategia della tensione italiana.
Morando restituisce con precisione giornalistica e forza narrativa l’Italia degli anni bui, quando pezzi dello Stato dialogavano con l’eversione nera, e la verità era una prigione da cui era difficile evadere.
Un libro che aiuta a comprendere come la strage di Peteano non fu un episodio isolato, ma parte integrante di un progetto più vasto di destabilizzazione e paura.
“L’ergastolano” non è solo il ritratto di Vinciguerra, ma uno specchio deformante del nostro Paese: un Paese che per conoscere la verità ha dovuto ascoltarla dalla voce di un assassino.
Un’opera necessaria per chi crede nella memoria come atto di giustizia, e per chi — come noi — continua a interrogarsi sul rapporto oscuro tra potere, silenzi e verità negate.
Guglielmo Bongiovanni
Grazie Guglielmo….per stare nelle periferie delle notizie…della storia….della società, dove i dettagli portano dritto dritto nel centro.