La mancata cattura di Provenzano (parte terza)

Giovanni Napoli: “Il veterinario dello Stato che guidava la latitanza del boss”

Volti e nomi dell’ombra

Continua il nostro racconto sulla mancata cattura di Provenzano. Ci ritroviamo quando Luigi Ilardo comunicò ai vertici del ROS che avrebbe incontrato Bernardo Provenzano in una masseria a Mezzojuso.

Ilardo fornì anche i nomi e i dettagli di quattro figure-chiave: uomini apparentemente ordinari, ma in realtà pilastri di una rete logistica che permetteva al boss corleonese di vivere, muoversi e comunicare nell’assoluta clandestinità.

Ecco chi erano!

Giovanni Napoli: il custode dello Stato e del boss

Cominciamo da Giovanni Napoli una delle figure centrali di questa vicenda che merita un capitolo a parte.

Giovanni Napoli non era un mafioso nel senso tradizionale del termine. Era un veterinario, regolarmente assunto presso l’Assessorato Regionale Agricoltura e Foreste della Regione Sicilia. Ma dietro quella facciata istituzionale si celava una delle figure chiave della logistica di latitanza di Bernardo Provenzano, il boss più ricercato d’Italia.

A rivelarlo fu proprio Luigi Ilardo, che lo indicò come colui che fungeva da “autista del Provenzano” e da tramite logistico per gli incontri.

Il 31 ottobre 1995, proprio Napoli fu alla guida della Ford Escort grigia PA B00057, immortalata dagli uomini del ROS mentre prelevava Ilardo e Vaccaro per condurli al casolare dell’incontro. Tutti gli elementi per identificarlo erano già disponibili: numero di targa, utenze telefoniche — una delle quali, la 091.6966242, risultava intestata a un interno dell’assessorato — e domicili noti.[1]

Ma inspiegabilmente, nonostante ciò, nessuna attività tecnica fu avviata nei suoi confronti. Il suo nome compariva nei documenti interni del ROS, ma le prime intercettazioni vennero disposte soltanto nel dicembre 1996, oltre un anno dopo l’incontro, e non su iniziativa del ROS, ma del Comando Provinciale dei Carabinieri. [2]

La sentenza d’appello del processo sulla trattativa Stato-mafia conferma che Giovanni Napoli non era un nome secondario ma era

la persona che curerà nella zona gli interessi del Provenzano stesso[3].

Secondo il collaboratore Antonino Giuffrè, Napoli Giovanni fu favoreggiatore attivo della latitanza di Provenzano, incaricato non solo della logistica ma anche della gestione di rapporti economici. La zona di Mezzojuso, secondo le testimonianze, era diventata “un mini mandamento” sotto il suo controllo e quello di Nicolò La Barbera, dove Provenzano si muoveva con assoluta sicurezza. [4]

A confermare la gravità della sua funzione fu anche il collaboratore Ciro Vara, secondo cui Napoli accompagnava il boss dal medico Antonino Cinà, curava i suoi spostamenti, e aveva interessi comuni nella gestione di società e beni immobiliari, soprattutto nella zona di San Vito Lo Capo.[5]

La situazione raggiunge il paradosso quando, durante una perquisizione, furono sequestrati sette dischetti contenenti documenti sensibili relativi alla contabilità e ai patrimoni riconducibili a Provenzano.

Quei supporti — potenzialmente determinanti — furono restituiti alla moglie di Napoli il giorno dopo, su disposizione diretta del comandante della Stazione dei Carabinieri di Mezzojuso.[6]

A peggiorare il quadro, vi è anche la gestione delle intercettazioni: iniziate tardi e chiuse dopo pochi mesi per “assenza di elementi concreti”, nonostante Napoli fosse già stato indicato da più fonti come perno della rete mafiosa.

Lo scenario disegnato basterebbe per concludere che molti comportamenti del Napoli erano “compatibili con la consapevolezza di essere controllato”, ma nessuno ritenne necessario proseguire l’attività investigativa[7]

Perchè? Chi e che cosa si voleva coprire? Quale patto, se di ciò si può parlare, doveva essere tenuto segreto?

A darci conforto è la stessa sentenza d’appello sulla “Trattativa Stato-mafia che sancisce senza mezzi termini che

L’inazione degli organi inquirenti non può essere spiegata da limiti tecnici. Vi erano ‘precise segnalazioni già dal 1994’, e gli elementi raccolti da Ilardo, dai ROS e dai collaboratori di giustizia come Giuffrè e Vara avrebbero giustificato misure più invasive, se solo si fosse voluto agire.[8]

Ma al danno non può mancare la beffa. Napoli verrà condannato per associazione mafiosa in primo grado solo nel 2001 e in via definitiva nel 2009: quattordici anni dopo che Ilardo aveva dato tutti i dettagli operativi per mettere sotto controllo una delle figure chiave che proteggeva la latitanza del Padrino.

Ma a quel punto, il danno era fatto: la rete mafiosa era rimasta operativa per anni, grazie anche alla copertura — diretta o indiretta — di chi avrebbe dovuto smantellarla.

Il sequestro-lampo dei telefoni cellulari

A rafforzare i sospetti sul ruolo attivo di Napoli nella logistica mafiosa, vi fu anche il sequestro di tre telefoni cellulari che gli appartenevano. Incredibilmente, tali dispositivi — potenzialmente ricchi di dati su contatti e comunicazioni legate alla latitanza di Provenzano — furono restituiti alla moglie dopo soli due giorni, senza che venisse disposta alcuna perizia tecnica.

La magistrata Teresa Principato, sentita nel processo sulla trattativa Stato-mafia, inizialmente negò l’episodio, ma fu poi costretta a riconoscere la sua firma su quel provvedimento di restituzione di tre telefoni cellulari e di dispositivi tecnici sequestrati a Giovanni Napoli, strumenti utilizzati per tutelare la latitanza del Provenzano.

Il fatto venne denunciato con forza da Luana Ilardo davanti alla Commissione Antimafia, dove definì l’accaduto come un grave indizio dell’occultamento di verità scomode

Nonostante il flusso di importantissime informazioni dettagliate che Riccio relazionava nell’immediatezza, la dott.ssa Principato non fece avviare e ne dispose alcuna attività investigativa in relazione alle utenze telefoniche e numeri di targa dei soggetti che favorivano la latitanza del Provenzano, in particolare del Giovanni Napoli[9]

Ma non finisce qua!

CONTINUA CON LA RETE INVISIBILE: CHI PROTEGGEVA PROVENZANO?

Guglielmo Bongiovanni

Note:

[1] Tribunale di Palermo, Sezione del giudice per le indagini preliminari
Ordinanza di archiviazione emessa dalla dott.ssa Maria Pino il 19 settembre del 2011;

[2] Ibidem;

[3] Sentenza emessa dalla Corte d’assise di Palermo il 23 settembre del 2021;

[4] Ibidem;

[5] Idibem;

[6] Idibem;

[7] Idibem;

[8] Idibem;

[9] Audizione Luana Ilardo presso la Commissione parlamentare d’inchiesta contro la mafia, 16 novembre del 2011;