
I guardiani dell’invisibile: Cono, Ferro, Vaccaro
Ilardo li indicò. Il Ros li registrò. Lo Stato li ignorò
Continuiamo con la nostra storia sulla mancata cattura di Provenzano. Abbiamo preferito raccontarvela in più episodi. Del resto la vicenda, a nostro modesto parere, rappresenta uno degli episodi più gravi di questa storia che ci riservò un finale tragico la sera del 10 maggio del 1996 quando, in via Quintinio Sella, a Catania, nove colpi di pistola fermarono per sempre l’infiltrato Luigi Ilardo.
Ci siamo fatti ispirare, come sempre, da alcune sentenze che, seppur hanno sancito l’assoluzione dei veritci del Ros dell’epoca, hanno comunque segnalato in modo fermo, omissioni, ritardi, inefficenze da parte di chi era chiamato ad agire per assicurare alla giustizia il boss dei boss, il capo di Cosa nostra dopo l’arresto di Totò Riina: Binnu u tratturi
Non è affatto un mistero che seppur i giudici non hanno ravveduto nessuna aggravante, tale da poter statuire, oltre ogni ragionevole dubbio, che la latitanza di Provenzano sia stata protetta da quegli apparati deputati alla ricerca e alla cattura dei boss mafiosi, hanno, comunque, lasciato aperti numerosi interrogativi.
Vorremmo essere chiari sin da subito.
Questo racconto mette a nudo, forse più di ogni altro, che dietro quell’omicidio, ci possono essere state entità esterne a Cosa nostra che ne hanno determinato il processo di accelerazione: Ilardo doveva morire, subito, in fretta e furia: del resto a dircelo sara la sentenza del 21 marzo del 2017 che condannò all’ergastolo solo gli esecutori e i mandanti mafiosi di quell’omicidio.
Ma torniamo alla nostra storia laddove l’avevamo lasciata.
Se Giovanni Napoli era l’uomo dello Stato che traghettava il boss, Nicolò La Barbera (detto “Cono”), Salvatore Ferro e Lorenzo Vaccaro erano i guardiani silenziosi della latitanza di Bernardo Provenzano. Le loro identità erano note, i loro ruoli descritti nei dettagli da Luigi Ilardo, le prove c’erano. Eppure, nessuno li toccò per mesi. In alcuni casi, per anni.
Nicolò “Cono” La Barbera: l’ospite predestinato
Cono era il padrone del casolare dove Ilardo incontrò Provenzano. Era lui ad attendere gli ospiti, lui a preparare il pranzo per il latitante: carne al sangue, niente sale. Tutto secondo abitudine. La Barbera aveva con Provenzano “un rapporto di fiducia consolidato”, lo si deduce anche da un dettaglio: parlava liberamente in casa, sapendo di non essere ascoltato. Ma si sbagliava.
Secondo la sentenza d’appello, una microspia installata nella sua abitazione «smise di funzionare improvvisamente», e fu probabilmente scoperta a seguito di una conversazione della moglie con un’amica[1]
Il paradosso? Il ROS lo conosceva.
Eppure, l’intercettazione sulla sua utenza venne disposta solo il 25 settembre 1996, (quattro mesi dopo l’uccisione di Ilardo) e addirittura “col pretesto di un’indagine su un altro latitante, Francesco Nangano”[2]
La giudice Pino, nel provvedimento di archiviazione Riccio, è netta:
«La scelta di frammentare l’azione investigativa ha spezzato il collegamento tra La Barbera Nicolò e Provenzano Bernardo»[3]
Salvatore Ferro: il mafioso dimenticato
Mafioso agrigentino, fratello del noto Antonio Ferro, fu indicato da Ilardo come colui che ordinò a Napoli di accompagnarlo da Provenzano.
Il suo nome era già nei dossier del ROS prima dell’incontro: lo sapevano. Eppure, nella relazione operativa del 31 ottobre 1995, Ferro non viene nemmeno menzionato.
Il ROS omise ogni riferimento, e non lo inserì nemmeno nell’informativa “Grande Oriente”. Solo nel novembre 1996 vennero disposte le prime attività tecniche.
Troppo tardi. Come evidenziato dalla sentenza di archiviazione: «Nonostante l’individuazione di Ferro fosse già nota, non si adottò alcuna misura immediata, né investigativa né giudiziaria»[4]
La magistratura ebbe tra le mani un’identificazione chiara, una fonte interna, un contesto operativo. Ma nulla fu fatto.
Lorenzo Vaccaro: l’uomo invisibile
Viaggiava nell’auto con Napoli e Ilardo. Fu presente all’incontro. Era parte integrante della rete logistica. Ilardo lo indicò come soggetto fidato del boss. Il suo nome comparve subito nei documenti del ROS.
Eppure, nessuna indagine immediata, nessuna analisi patrimoniale, nessuna misura tecnica.
Il capitano Damiano, come si legge in sentenza, dichiarò di non conoscerlo, ma fu smentito da testimoni e documenti. Persino l’appuntato Tafuri confermò di averlo visto e identificato [5]
La giudice Pino lo scrive chiaramente:
«Il ritardo o la mancata attivazione delle misure nei confronti dei soggetti presenti all’incontro con Provenzano dimostra una condotta omissiva non occasionale, bensì strutturata»[6]
Una rete intera lasciata intatta
La Barbera, Ferro, Vaccaro: tre nomi, tre volti, tre presenze chiave. Tutti identificati. Tutti osservati. Nessuno arrestato. Nessuno interrogato subito. Nessuno disturbato nella loro attività logistica.
Ilardo li indicò. Il ROS li registrò. Lo Stato li ignorò.
E così, mentre Luigi Ilardo rischiava la vita e parlava con fiducia, la rete che proteggeva il boss rimaneva intatta, operativa, e soprattutto protetta.
«L’intero patrimonio informativo fornito da Ilardo e relativo al latitante non fu valorizzato tempestivamente» [7]
Ma non finisce qua!
La nostra ricerca si chiuderà su un’attenta analisi del comportamento tenuto dai vertici del Ros romano e dalla magistratura poichè anche dei “corto circuiti”, come ama definirli Luana Ilardo, secondo il nostro modesto parere, si registrarono anche da chi forse poteva fare di più ma non fece.
Guglielmo Bongiovanni
Note:
[1] Tribunale di Palermo, Sezione del giudice per le indagini preliminari
Ordinanza di archiviazione emessa dalla dott.ssa Maria Pino il 19 settembre del 2011;
[2] Sentenza emessa dalla Corte d’assise di Palermo il 23 settembre del 2021;
[3] Sentenza emessa dalla Corte d’assise di Palermo il 23 settembre del 2021;
[4] Tribunale di Palermo, Sezione del giudice per le indagini preliminari
Ordinanza di archiviazione emessa dalla dott.ssa Maria Pino il 19 settembre del 2011;
[5] Ibidem;
[6] Ibidem;
[7] Ibidem;