“La trappola per Provenzano e l’operazione zootecnica di Stato”
Un giorno del 1995, la storia d’Italia imbocca un bivio. Mezzojuso, superstrada Palermo-Agrigento. Lì dove si sarebbe potuto cambiare il corso della lotta alla mafia, si sceglie invece la “sorveglianza passiva”. E no, non è una barzelletta. È l’Italia.
La trappola (mai scattata) per Provenzano: un thriller all’italiana
Si apre la saga della mancata cattura di Provenzano che in tanti ci hanno chiesto.
A tal proposito è mio desiderio raccontarvi una storia di un video che i lettori possono veedere in fondo al post.
C’è una voce fuori campo, di quelle che aprono i documentari più tesi, e ci racconta subito un mondo parallelo:
“Nel 1993 la Squadra Speciale dei Ros guidata dal Capitano Ultimo arresta a Palermo Totò Riina”.
Così, come nei sogni: arriva il Capitano, il Ros, l’arresto. Sipario. Trionfo.
Ma qui, invece, si racconta la storia di un arresto che non avviene. Anzi, di un arresto che viene, se ci è passato il termine, evitato con cura, quasi con affetto. E non di uno qualunque: ma di Bernardo Provenzano.
Il racconto prosegue con le parole di Massimo Ciancimino, figlio di Vito, il “barbiere” più influente della storia di Palermo, condannato per mafia, amico fraterno dei Corleonesi del calibro di Totò Riina e Bernardo Provenzano:
“La mancata perquisizione del covo di Riina fu concordata tra mio padre e Provenzano. Era uno dei punti dell’accordo. E fu comunicata ai Carabinieri.”
Gino Ilardo, il cavallo di Troia
Ecco che entra in scena Luigi “Gino” Ilardo, mafioso, affiliato alla famiglia dei Madonia di Caltanissetta, ma soprattutto infiltrato dei Ros. Un uomo che rischia la pelle ogni giorno per smantellare dall’interno la Cupola. E lo fa con rigore, puntualità e pure un pizzico di fede.
Ilardo Chiama Riccio, il colonnello che lo gestisce
“Mi ha chiamato uno dei miei. Mi portano dallo zio!”
“Quando?”
“Tra due giorni, appuntamento sulla superstrada Palermo-Agrigento, bivio di Mezzojuso, alle 8 del mattino.”
Lo “zio”, ovviamente, è Bernardo Provenzano in carne, ossa e pizzini. L’inafferrabile fantasma di Corleone.
Roma, dolce Roma
Riccio, che è a Genova, non perde tempo e telefona al suo superiore Mario Mori:
“Colonnello, ci siamo. Il nostro infiltrato incontra Provenzano! Dopodomani lo prendiamo.”
Risposta di Mori: “Ho capito.
La sensazione che Riccio avverte è quella una marcata indifferenza mostrata dal suo superiore, quindi prende l’iniziativa e scende a Roma. Vuole organizzare tutto al meglio: squadra da Genova, cintura-segnalatore su Ilardo, procura informata.
“Colonnello Provenzano ce l’abbiamo in pugno. Voglio mettere addosso a Ilardo una cintura con il segnalatore, non voglio perderlo un istante.”
Risposta di Mori:
“Ma qui non abbiamo cinture di quel tipo.”
Riccio insiste:
“Va bene, me la procuro dagli americani dell’antidroga, so come fare. E bisogna subito avvisare la Procura di Palermo.”
Mori, inflessibile:
“Ma quali americani. Non se ne parla nemmeno. E non una parola con la Procura.”
Ora, in qualunque paese normale, a questo punto, Riccio avrebbe chiamato direttamente il magistrato. In Italia, invece, si apre il festival del “rinvio strategico”.
“Di’ a Ilardo di fornirci quanti più dettagli possibili e di ottenere un secondo incontro. A quel punto interverremo.”
Sorvegliare, non disturbare
Intanto, la nostra vocina fuori campo ci racconta che secondo i magistrati, Mori avrebbe detto l’opposto: fu Riccio a bloccare tutto. Temendo per l’incolumità della fonte. Una versione che cozza con quella fornita dal colonnello veneto Michele Riccio
Il giorno dell’incontro arriva. Ilardo è lì, sulla superstrada, puntuale come un orologio svizzero. Viene prelevato da un’auto e portato verso le campagne di Mezzojuso. I carabinieri? Appostati. E pronti a non fare niente.
“Interrompere il servizio. Sorvegliare e basta. Ripeto: sorvegliare e basta.”
Un ordine che nemmeno Kafka avrebbe saputo immaginare meglio.
Quel giorno oltre a Riccio a sapere dell’operazione erano solo in tre il colonnello Mario Mori il maggiore Mauro Obinu e Sergio De Caprio il Capitano Ultimo.
Mucche, pecore e latitanze
E se vi sembra tutto assurdo, aspettate di sentire l’altro colpo di scena. Perché nel marzo 2002, davanti al PM Nino Di Matteo, il comandante del Ros Gianfranco Obinu sgancia una verità che ha dell’incredibile:
“Noi abbiamo localizzato il casale (di Provenzano, ndr), ma consideri la difficoltà tecnica di entrare in quel posto, in quanto era costantemente occupato da pastori, mucche e pecore.”
Alt, fermi tutti. Questa sì che è una notizia. Proviamo a titolarla:
“Confessione choc di un ufficiale dei Carabinieri: ‘Sapevamo dov’era Provenzano ma le pecore fecero fallire il blitz’”
“Provenzano salvato da mucche e pastori. Il Ros conosceva il suo rifugio” [1]
Altro che cintura americana!
L’incontro con il Padrino
E infine, il momento mistico. Gino Ilardo si trova davanti Bernardo Provenzano, il latitante più cercato d’Italia:
“Caro Gino, grazie di essere venuto. Adesso sai come trovarmi. E che il Signore ti benedica.”
Un commiato quasi liturgico. Una benedizione. E un addio. Perché i due non si rivedranno mai più.
Epilogo amaro
Pochi mesi dopo il mancato blitz di Mezzojuso, Luigi Ilardo viene ucciso sotto casa sua. Di Provenzano, invece, non si sentirà più parlare fino al 2006, quando verrà finalmente arrestato. Ma nel frattempo, l’uomo che avrebbe potuto cambiare tutto è stato lasciato solo.
E allora, viene da chiedersi: chi doveva essere protetto quel giorno? Ilardo o Provenzano?
Perché, a guardarla bene, questa storia non sembra un’operazione di intelligence. Sembra un favore di Stato. O un’operazione zootecnica.