Il silenzio degli onesti: la battaglia solitaria di Ravidà e Riccio

Dentro l’apparato: come fu soffocata la verità sull’omicidio Ilardo

Due uomini contro il silenzio

C’è un filo sottile che attraversa la vicenda giudiziaria dell’omicidio di Luigi Ilardo. Un filo che collega due uomini in uniforme, due servitori dello Stato rimasti ai margini mentre la storia prendeva una piega che nessuno avrebbe voluto — e che qualcuno, forse, voleva davvero.

Uno è il colonnello Michele Riccio, l’altro è l’ex sostituto commissario della Dia di Catania Mario Ravidà.

Insieme, seppure da versanti istituzionali diversi, rappresentano una delle poche voci limpide dentro una vicenda che, ancora oggi, a distanza di quasi trent’anni, conserva zone d’ombra spesse e inquietanti.

Le loro deposizioni appaiono coerenti, convergenti, minuziosamente dettagliate.

Riccio racconta di un’infiltrazione condotta con metodi ortodossi e prudenza estrema. Ravidà conferma. Riccio parla delle informazioni su Provenzano, sulla nuova cupola catanese, sui traffici con la massoneria. Ravidà le raccoglie, le relaziona, le trasmette. Riccio denuncia l’isolamento, i sabotaggi, le pressioni. Ravidà conferma, e porta i nomi: Pappalardo, Micalizzio, Monterosso. Eppure nessuno li ascolta.

C’è un passaggio, nella sentenza di primo grado sull’omicidio Ilardo, che più di altri restituisce la misura del paradosso:

“Le dichiarazioni del teste Ravidà, della cui attendibilità non vi è ragione di dubitare, hanno offerto conferma dei successi investigativi conseguiti dal Riccio”[1]

Una verità giudiziaria scritta nero su bianco. Ma rimasta isolata, come i suoi protagonisti.

L’omicidio Ilardo non è soltanto un delitto di mafia. È anche il fallimento di un’intera macchina istituzionale che, per paura, per calcolo o per interesse, ha lasciato morire l’unico uomo che poteva portare lo Stato a sedere faccia a faccia con il boss dei boss, Bernardo Provenzano.

Ilardo poteva diventare il nuovo Buscetta, il collaboratore strategico capace di scardinare i ponti tra mafia, massoneria, servizi segreti, eversione nera e apparati istituzionali conniventi.

Invece fu tradito, esposto, eliminato.

E se c’è ancora una traccia viva della sua testimonianza, la dobbiamo a quei due investigatori che non hanno piegato la testa.

Questo capitolo racconta la loro storia, intrecciata a quella di un uomo che aveva deciso di voltare le spalle a Cosa nostra, ma che lo Stato — o almeno una parte di esso — ha lasciato solo.

“La coppia investigativa che disturbava”

Ma proviamo a racontarvi questa storia che ha inizio nel giugno 2015 quando l’ispettore Mario Ravidà compare in aula a Catania.

La sua testimonianza restituisce una fotografia nitida di quegli anni febbrili tra il 1994 e il 1996: una fase cruciale della lotta a Cosa nostra, in cui l’intelligenza investigativa del col. Michele Riccio e la rete informativa messa in piedi attorno alla “fonte Oriente” — ovvero Luigi Ilardo — consentirono arresti, identificazioni e colpi diretti al cuore della mafia catanese. Ravidà era uno degli uomini che con Riccio avevano collaborato di più, direttamente e con risultati evidenti.

“Riccio aveva anche fornito alla DIA di Catania gli elementi utili all’individuazione del Quattroluni Aurelio quale nuovo reggente di ‘cosa nostra’ catanese” [2]

Il sodalizio tra Riccio e Ravidà produce risultati anche nell’operazione “Chiaraluce“, che culmina tra il 1996 e il 1997 con l’arresto di decine di esponenti del clan Santapaola. Un rapporto operativo forte, che continuerà anche dopo il rientro di Riccio nell’Arma.

Ma se qualcuno nutrisse ancora dei dubbi basta citare cosa scriveranno i giudici, nella sentenza di primo grado sull’omicidio Ilardo, mostrando pieno apprezzamento e credibilità verso la testimonianza di Mario Ravidà:

“Le dichiarazioni del teste Ravidà, della cui attendibilità non vi è ragione di dubitare, hanno offerto conferma dei successi investigativi conseguiti dal Riccio […] nonché della prudente gestione dell’informatore»” [3]

I silenzi imposti: Pappalardo, Micalizzio

Ma questa cooperazione virtuosa verrà interrotta — o meglio, ostacolata — da interferenze, se ci è concesso il termine, interne alle istituzioni.

Crediamo di non dire il falso affermando che la delegittimazione di Riccio fu brutale e sistematica, mentre le vicende che investirono l’ispettore Mario Ravidà offrono un ulteriore sguardo sul clima interno a certe istituzioni.

È lo stesso Ravidà a raccontare come, dopo la morte di Ilardo, lui e il collega ispettore Francesco Arena furono chiamati dal dirigente della DIA di Roma, Tuccio Pappalardo, e chiusi in una stanza dell’aula bunker di Bicocca. Lì ricevettero un messaggio perentorio:

“Pappalardo disse che Riccio era una persona pericolosa, che si era preso un sacco di soldi, che era responsabile dell’omicidio di quattro terroristi, e che non avrebbe mai arrestato Provenzano perché si era approfittato dello Stato”[4]

Ma non finisce qui. Pochi giorni dopo, Arena viene convocato a Roma dal vice direttore della DIA, Pippo Micalizzio, che lo minaccia apertamente:

«Lo avrebbe estromesso dall’ufficio se avesse continuato a frequentare Riccio»​[5]

Questa campagna diffamatoria interna — orchestrata contro Riccio e chi lo sosteneva — viene raccontata in aula con sconcerto da Ravidà, che riferisce come lui e Arena tentarono inutilmente di spiegare che Riccio era in realtà vicino all’arresto di Provenzano grazie a Ilardo, e che l’episodio di Mezzojuso del 1995 ne era la prova evidente.

Ilardo, Sturiale e le verità archiviate

Se la delegittimazione di Riccio fu brutale e sistematica, le vicende che investirono l’ispettore Mario Ravidà offrono un ulteriore sguardo sul clima interno a certe istituzioni.

Non si trattò soltanto di intimidazioni o di emarginazione, ma di vere e proprie omissioni deliberate, come nel caso delle sue relazioni sull’omicidio Ilardo, basate sulle dichiarazioni del confidente Eugenio Sturiale.

Il rapporto tra Ravidà e Sturiale nasce nel contesto dell’operazione “Zefiro”, conclusa con l’arresto di diversi affiliati alla famiglia Santapaola. Sturiale inizia a collaborare informalmente con Ravidà, fornendogli fin da subito informazioni decisive sull’omicidio di Ilardo:

“Sturiale, che abitava vicino all’Ilardo, gli aveva infatti rivelato di essere stato testimone oculare dell’omicidio, indicandone gli autori in alcuni appartenenti alla squadra di Maurizio Zuccaro”[6]

I nomi sono quelli di La Causa Santo, Signorino Maurizio, Cocimano Benedetto e Giuffrida Pietro. Gli stessi — come verrà poi confermato — che fecero parte del gruppo di fuoco e furono condannati.

Ravidà agisce come da prassi: il 15 gennaio 2001 redige un’annotazione di servizio e la inoltra al dirigente di settore, il dott. Luigi Di Maio. Quest’ultimo porta la relazione all’attenzione della dirigente del Centro Operativo DIA di Catania, dott.ssa Monterosso, cugina della stesso dottore Pappalardo, lo stesso che aveva screditato l’operato del Riccio e di Ilardo.

Ma qui accade l’inspiegabile:

Per otto mesi, sebbene avesse premuto per uno sviluppo dell’attività investigativa, non aveva avuto alcun incarico in tal senso[7]

Solo successivamente, la nota viene trasmessa all’autorità giudiziaria. Ma neanche allora si muove qualcosa. Nessuna delega, nessun approfondimento. Nulla.

Chi era quel magistrato che non mosse un dito nella direzione di avviare una doverosa attività investigativa?

Va peraltro segnalato che le dichiarazioni di Sturiale non sono quelle tipiche del “pentito con vendetta”: al contrario perchè ancora prima dell’inizio della sua collaborazione formale con la giustizia fornisce informazioni che risulteranno poi coerenti e confermate:

“Le indicazioni che all’epoca Sturiale fornì al Ravidà […] fugano ogni dubbio sulla credibilità soggettiva del collaborante”[8]

In effetti, la Corte sottolinea che il rapporto Ravidà–Sturiale durò per anni, anche dopo il passaggio di quest’ultimo da un clan all’altro. Un rapporto consolidato, sorretto da risultati, che tuttavia venne messo a tacere dalla catena di comando e dalla magistratura.

Perchè?

Questo comportamento non è solo una colpa burocratica. È una ferita profonda nell’accertamento della verità sull’omicidio di Luigi Ilardo.

Una cosa è certa gli organi inquirenti conoscevano i nomi del gruppo di fuoco che quella sera agì in via Quintinio Sella tappando la bocca per sempre ad Ilardo.

Abbiamo dovuto aspettare diciassette anni per vedere sul banco degli imputati mandanti ed esecutori mafiosi di quel barbaro omicidio che erano gli stessi indicati dallo Sturiale.

A darci conforto saranno gli stessi giudici che scriveranno:

“Le relazioni redatte da Ravidà, vistate dai dirigenti, erano state regolarmente inviate alla Procura Distrettuale di Catania”[9]

E ancora:

“Le prime indicazioni fornitegli dallo Sturiale avevano riguardato proprio l’omicidio Ilardo e su esse aveva relazionato al suo ufficio con l’annotazione di servizio del 15 gennaio 2001”[10]

Una macchina investigativa ben oleata, che però si arresta quando la verità inizia a salire troppo in alto. Il caso Ravidà, con le sue relazioni ignorate e i silenzi istituzionali, è la prova che la giustizia sapeva, ma ha scelto di non agire.

Perchè? Cosa ci sta dietro quel silenzio? Chi si voleva coprire? A distanza di quasi trent’anni a chi fa paura ancora Ilardo? Quali e quante verità indicibili si nascondono dietro quei nove colpi di pistola esplosi la  sera del 10 maggio del 1996?

Sono numerosi gli elementi che ci fanno pensare che dietro quell’assassinio ci siamo delle “Entità” esterne a Cosa nostra che ne hanno decreto il processo di accelerazione della volonta di far fuori Luigi Ilardo

Ilardo: il testimone che sapeva troppo

Non è un mistero che il pentimento di Luigi Ilardo era finalizzato in primo luogo alla cattura del boss dei boss: Bernardo Provenzano  e all’individuazione dei veri mandanti della strage di Capaci, dove perse la vita il giudice Falcone con la moglie e i suoi agenti di scorta.

Non è affatto un mistero che Ilardo era pronto a parlare su alcuni dei misteri che tali sono rimasti ad oggi: il fallito attentato dell’Addaura contro Falcone, il delitto Mattarella, il barbaro assassinio del piccolo Claudio Domino, l’ omicidio del poliziotto Antonino Agostino, ucciso a Carini insieme alla moglie.

Così come  non è un mistero che Ilardo aveva inziato a delineare al colonnello Riccio quel “sistema criminale” all’interno del quale Cosa nostra era solo uno dei tanti tasselli che comprendeva anche la cosiddetta massoneria deviata, la ‘ndrangheta, il mondo dell’eversione nera e alcuni apparati istituzionali conniventi.

Ilardo fu quello che per primo fece il nome di Marcello Dell’Utri, braccio destro di Berlusconi, condannato, in via definitiva, per concorso esterno in associazione mafiosa.

Siamo nel 1996, cinque anni dopo Forza Italia, ottiene in Sicilia un successo elettorale senza precedenti (62 a 0).

Successo che secondo il racconto che ne fanno numerosi collaboratori di giustizia sia stato dovuto anche ai voti espressi dai vertici della mafia siciliana.

Una verità condivisa e ignorata

Tornando ai protagonisti di questo racconto possiamo concludere, senza timori di smentita, che il confronto tra Ravidà e Riccio è una delle poche zone di verità cristallina dentro una vicenda torbida.

I due uomini — pur con ruoli diversi e percorsi separati — hanno descritto lo stesso scenario: un sistema ostile verso chi voleva portare avanti l’indagine, un apparato che ha deliberatamente messo ostacoli alla cattura di Provenzano e alla protezione di Ilardo.

La loro collaborazione è una testimonianza concreta di come la lotta alla mafia possa essere efficace — ma anche di come possa essere boicottata da interessi interni.

Si ha come la netta sensazione che le minacce di Pappalardo, le pressioni di Micalizzio, il discredito calato su Riccio, le rivelazioni archiviate: tutto questo, sembrerebbe dare forma a un puzzle che, se ricomposto, mostrarebbe un disegno più grande.

Ilardo poteva essere un nuovo Buscetta. Invece è diventato un nome tra gli omicidi irrisolti per troppi anni. Ma le voci di Riccio e Ravidà lo tengono ancora vivo.

Guglielmo Bongiovanni

Note:

[1] Sentenza sull’omicidio Ilardo emessa dalla Corte d’assise di Catania del 21 marzo del 2017

[2] Idibem;

[3] Idibem;

[4] Idibem;

[5] Idibem;

[6] Idibem;

[7] Idibem;

[8] Idibem;

[9] Idibem;

[10] Idibem;