“Il pentito tradito: la morte di Luigi Ilardo e i silenzi dello Stato”

Un’inchiesta coraggiosa e necessaria

Vi riproproniamo sopra e alla fine di questa breve riflessione il video che ricostruisce la requisitoria prodotta dal dott. Pasquale Pacifico in occasione del processo sull’omicidio di Luigi Ilardo compiuto a Catania il 10 maggio del 1996. Questo per sottolineare che non sono contenuti fantasiosi ma atti processuali veri e propri.

Sette minuti circa sulle anomalie – se così vogliamo chiamarle con indulgenza – che hanno portato all’omicidio di Luigi Ilardo, boss di Cosa Nostra, vice rappresentante della potente famiglia mafiosa di Caltanissetta e, allo stesso tempo, infiltrato per conto dello Stato nella stessa organizzazione criminale.
Un duplice ruolo che lo rese un testimone pericolosissimo, un uomo capace di far tremare equilibri troppo delicati e poteri che non potevano permettersi che parlasse.

Riccio, Mori e le “anomalie” del ROS

Nella ricostruzione emergono con chiarezza i successi investigativi del colonnello Michele Riccio durante il periodo in cui prestava servizio alla DIA, ma anche – in netto contrasto – le lacune e gli assurdi comportamenti di alcuni uomini dei ROS.
Dopo l’allontanamento di Riccio dalla DIA – frutto di invidie, rivalità interne e forse di pressioni superiori – il colonnello fu costretto, suo malgrado, a rientrare nel reparto comandato da Mario Mori.
Da quel momento, l’attività investigativa subì una brusca frenata. Le operazioni che ruotavano intorno alla collaborazione di Luigi Ilardo si trasformarono in un susseguirsi di errori, ritardi e presunte omissioni.
Un mosaico di “casualità” che, ancora oggi, fa sorgere una domanda inquietante:
com’è possibile che siano stati perfino promossi coloro che avrebbero dovuto impedirne la morte?

Dalla mafia ai Servizi: un percorso inquietante

Molti di coloro che, in quegli anni, avrebbero avuto responsabilità dirette o indirette nella gestione del caso Ilardo, hanno successivamente trovato posto nei Servizi Segreti della Repubblica.
Un dato che da solo basterebbe a suscitare più di un interrogativo.
La sensazione, più che legittima, è che l’omicidio Ilardo non sia un episodio isolato, ma l’ennesimo tassello di una trama ben più ampia, in cui la verità viene sistematicamente sepolta sotto strati di depistaggi e protezioni istituzionali.

Una strategia che attraversa la storia italiana

La vicenda di Luigi Ilardo si intreccia con un filo oscuro che lega tra loro le stragi, gli omicidi eccellenti e le deviazioni dei poteri dello Stato.
Dal dopoguerra agli anni Novanta, l’Italia ha conosciuto una lunga serie di attentati e delitti politici che, anziché destabilizzare il Paese, ne hanno garantito la stabilità apparente e il perpetuarsi di un medesimo potere politico.
Una “stabilità” costruita sul sangue, orchestrata da apparati militari, logge massoniche, forze eversive e settori infedeli delle istituzioni.
Non solo mafia, dunque, ma una convergenza di interessi tra criminalità organizzata, politica e poteri esterni, spesso riconducibili alla strategia della tensione.

Le assoluzioni e le persecuzioni dei giusti

Le clamorose assoluzioni che hanno chiuso molte delle inchieste su stragi e omicidi eccellenti, e le carriere brillanti dei responsabili istituzionali, sono la prova di un sistema che protegge sé stesso.
Chi ha tentato di svelare la verità è stato isolato, screditato o perseguitato.
E oggi lo vediamo di nuovo accadere: l’attacco politico e mediatico contro il dottor Roberto Scarpinato, già Procuratore generale di Palermo e oggi senatore, rientra nella stessa logica.
L’obiettivo di volero escludere dalla Commissione Parlamentare Antimafia Nazionale mira a cancellare ogni narrazione alternativa, per ridurre la strage di via D’Amelio a un semplice regolamento di conti “mafia-appalti”, ignorando invece le responsabilità di apparati istituzionali e internazionali.
Scarpinato è rimasto una delle poche voci libere a denunciare la continuità di potere tra mafia, massoneria e politica, la stessa che Luigi Ilardo aveva intuito e cercato di rivelare.

Un uomo che sapeva troppo

Luigi Ilardo non era solo un collaboratore di giustizia in attesa di ufficializzazione: era un testimone chiave della storia criminale e politica italiana.
Aveva visto, sentito e capito troppo.
Conosceva uomini e fatti che attraversavano decenni di misteri italiani, dal terrorismo nero alle stragi di mafia.
Sapeva di Gianni Chisena, mafioso, massone e vicino ai Servizi, con cui si recò più volte a prelevare esplosivo da arsenali militari, accompagnato da uomini dello Stato.
Un materiale poi impiegato – secondo numerose fonti – nelle stragi eversive di destra.

Conosceva bene Pietro Rampulla, l’artificiere di Capaci, suo compagno di università a Messina.
Fu lo stesso Ilardo a dire al colonnello Riccio:

“Se mi mostrassero gli inneschi e i congegni usati per l’attentato a Capaci, saprei dirvi se li ha preparati Rampulla.”

Parole pesanti, che trovano eco in un’altra dichiarazione ancora più grave, pronunciata davanti al generale Mario Mori:

“Molti degli eventi stragisti avvenuti in Italia non sono solo di responsabilità mafiosa, ma di accordi di Stato. E lei, Generale, lo sa benissimo.”

Pochi giorni dopo, Luigi Ilardo veniva assassinato.

Il sacrificio e la memoria

Luigi Ilardo muore perché la sua verità era troppo pericolosa.
Non lo uccise soltanto la mafia, ma un sistema che aveva paura della verità.
Un sistema che da decenni protegge se stesso e punisce chi tenta di spezzarne il silenzio.
Oggi, grazie al lavoro di Angelo Garavaglia Fragetta e al coraggio di chi non dimentica, la storia di Luigi Ilardo torna a parlarci, chiedendo giustizia e memoria.

Ilardo aveva capito che la lotta alla mafia non può esistere senza la lotta contro le sue complicità istituzionali.
Aveva compreso che per sradicare il male non basta arrestare i boss: bisogna svelare chi li protegge.
E per questo è morto.

Guarda il video di Angelo Garavaglia Fragetta per conoscere nel dettaglio questa ricostruzione e capire perché Luigi Ilardo rimane, ancora oggi, il simbolo di una verità negata.