
Verità ignorate, giustizia tradita: la voce scomoda di Mario Ravidà
L’incontro organizzato di recente ad Aci Castello ha rappresentato un raro momento di autentica informazione pubblica. Merito va dato a Antimafia Duemila, a quegli eccezionali operatori dell’informazione che, a differenza di molte grandi testate nazionali, non dimenticano né sorvolano sulle pagine più oscure della nostra storia repubblicana: dalle stragi, alle collusioni istituzionali, fino alle reticenze di apparati giudiziari che avrebbero dovuto — ma non lo fecero — agire nel nome dello Stato e della giustizia.
Tuttavia, l’evento ha registrato una grave assenza: quella del primo cittadino di Aci Castello, che non ha ritenuto opportuno intervenire. Una mancanza che è stata egregiamente colmata dalla partecipazione del consigliere Maugeri, che non solo ha presenziato ma è stato anche tra gli organizzatori della serata.
Presente tra il pubblico, Mario Ravidà, ex sostituto commissario della DIA di Catania, ha manifestato il desiderio — purtroppo non concretizzato — di porre pubblicamente alcune domande al giudice Nino Di Matteo. Domande tutt’altro che polemiche, quanto piuttosto dettate dalla volontà di comprendere, con maggiore chiarezza, come si siano svolti determinati eventi e perché alcune omissioni o ritardi da parte di altri magistrati e investigatori dell’epoca non siano mai stati oggetto di responsabilità.

Il caso Riccio–Ilardo e la mancata cattura di Provenzano
Tra gli interrogativi più urgenti che Ravidà avrebbe voluto porre, spicca quello sul comportamento del magistrato a cui il procuratore Giancarlo Caselli affidò la trattazione del colonnello Michele Riccio e del suo infiltrato Luigi Ilardo. Un caso emblematico, tuttora sospeso tra verità accertate e verità mai perseguite.
Come ha ricordato lo stesso Ravidà, in occasione del mancato arresto di Bernardo Provenzano da parte dei ROS di Mario Mori nella località di Mezzojuso, il colonnello Riccio informò immediatamente il dottor Pignatone, comunicandogli quanto avvenuto. Ma non si limitò a una telefonata. Il giorno seguente, Riccio si recò personalmente alla Procura di Palermo, accompagnato dal Capitano Damiano, responsabile della Sezione di Caltanissetta dei ROS. Lì, riferì nuovamente a voce tutto l’accaduto al dott. Pignatone.
A tal punto che — riferisce Ravidà — Pignatone avrebbe chiesto a Riccio chi fosse incaricato dell’arresto di Provenzano, ottenendo come risposta: “Se ne occupa Mori, e in particolare la squadra dei ROS guidata dal Col. De Caprio.”
Eppure nulla accadde. E nonostante tutto questo, Michele Riccio — con disciplina e senso del dovere — redasse due relazioni di servizio nei giorni immediatamente successivi, consegnandole al suo superiore, Mario Mori. In quelle relazioni, Riccio descriveva puntualmente i fatti di Mezzojuso, confermando la presenza di Provenzano e dei suoi favoreggiatori, annotando anche numeri di targa e di telefono, per facilitarne l’identificazione.
Risultato? Bernardo Provenzano restò indisturbato in quel rifugio per altri sei anni. Le indagini sui favoreggiatori — che erano stati già indicati — iniziarono con due anni di ritardo.
Domande senza risposta
Da qui, le domande amare di Mario Ravidà:
“Il dott. Pignatone come mai non chiese contezza della mancata operazione di arresto ai ROS di Mario Mori?”
“Perché le indagini sui favoreggiatori iniziarono solo due anni dopo?”
Ma soprattutto:
“Perché i magistrati informati di tutto ciò non sono mai stati perseguiti per quei ritardi e quelle omissioni così gravi?”

Il caso Ilardo e le omissioni della Procura di Catania
Le riflessioni dell’ex commissario non si sono fermate a Palermo. Hanno toccato anche Catania, e in particolare l’omicidio di Luigi Ilardo, avvenuto nel maggio 1996. Ravidà ha rievocato un episodio personale dirompente.
A cinque anni dal delitto, aveva redatto una relazione di servizio dettagliata, in cui indicava gli autori materiali dell’omicidio, sulla base delle dichiarazioni di un testimone oculare. Quel testimone, diciassette anni dopo, sarebbe divenuto collaboratore di giustizia, confermando pienamente quanto Ravidà aveva già riportato per iscritto.
La sua relazione fu consegnata immediatamente alla DIA di Catania, di cui faceva parte. Tuttavia, la Procura di Catania — pur venuta a conoscenza dei contenuti della relazione con un ritardo di circa 8–9 mesi — non rilasciò mai una delega d’indagine. Nonostante si trattasse, a tutti gli effetti, di una notizia di reato: nella relazione erano riportati anche i mezzi usati dai killer, dettaglio essenziale per un’indagine.
Ancora una volta, silenzio. Nessuna apertura d’indagine. Nessuna reazione istituzionale.
Un grido di coscienza, prima che sia troppo tardi
Ecco perché — conclude idealmente Ravidà — queste erano le domande che avrebbe voluto porre pubblicamente. E non per polemica, ma per sollecitare una coscienza critica, affinché si comprenda che i gravi ritardi e le omissioni da parte di organi istituzionali hanno agevolato, e in certi casi reso possibili, accordi e patti dello Stato con una parte di Cosa nostra.
Un’ultima considerazione, amara quanto vera:
“Grave è il fatto che si deve aspettare la morte di questi personaggi istituzionali per addebitargli le responsabilità che dovevano essere addebitate quando erano in vita… e non da dopo morti.”
Guglielmo Bongiovanni