Le Prove scomparse

“La gioia di vivere”: Contro l’oblio e le prove scomparse nei delitti eccellenti

Un viaggio tra documenti, testimonianze e ombre istituzionali. Da Mauro Rostagno a Ignazio D’Antone, passando per Luigi Ilardo e Ninni Cassarà.

L’angoscia, la paura, la speranza

L’angoscia, la paura, per fortuna lasciano il posto, di tanto in tanto, ad un breve passo di una lettera che Mauro Rostagno, giornalista, nonché sociologo, ucciso dalla mafia il 26 settembre del 1988, scrisse molto tempo fa, a Renato Curcio.

“La lotta alla mafia esprime la gioia di vivere”

Mentre lavoravo su una ricerca che presto sarà online sul nostro sito in memoria di Luigi Ilardo l’angoscia abbracciò la mia mente in una notte buia e pensierosa.

Mi accorsi leggendo e rileggiando su alcune delle vicende più gravi accadute in Italia che le cose che non sappiamo sono davvero tante.

“Ma chi te lo fa fare?”: la voce dell’indifferenza

Qualcuno continua a ripetermi “Ma chi te lo fa fare?”

Sono passati decenni non concluderai un ficco secco “Si nuddu miscatu cu nnenti”

Questi signori sono e saranno sempre intoccabili, faranno sempre quello che vogliono perché coperti da entità esterne che gli assicurano la totale impunità. Sono bidepi che non provano vergogna sono indifferenti alle morti, alle stragi, al sangue di chi ha dato la vita per questo Stato.

 La risposta: la gioia di vivere

La mia risposta al solito e noioso interlocutore è sempre identica “la gioia di vivere”.

La gioia di poter condurre la mia vita nell’aver fatto il mio dovere di educatore nelle scuole cercando di alimentare la cultura della legalità e con essa le coscienze oneste e pure dei nostri alunni.

Le cose che non sappiamo

Nel leggere diversi documenti processuali, diversi verbali e nell’ascoltare e vedere diversi video che sto utilizzando per il mio approfondimento, in vista del 19 luglio 2025, quando in via D’Amelio si sancì un duro colpo alla lotta contro le mafie con l’uccisione di Paolo Borsellino e dei suoi agenti di scorta, mi sono reso conto che non solo sono davvero tante le cose che non sappiamo, ma sono anche numerose le vicende amare, tragiche, intrise di sangue, che ha dovuto inghiottire il nostro Paese, nelle quali le prove sono state fatte sparire. Specialmente per i cosiddetti omicidi eccellenti.

Ma da chi sono state fatte sparire?

Possiamo provare a fornire delle risposte a questa legittima domanda?

Le prove scomparse nei delitti eccellenti

In primo luogo si può ben dire che le prove scomparse nei delitti eccellenti non hanno lasciato segno e nella maggior parte dei casi nessuno ha mai saputo della loro esistenza.

Neanche il killer sapeva della loro esistenza.

Forse a saperlo sono solo i mandanti.

A volte le prove fatte sparire assicurano impunità quasi sempre garantita ai mandanti di un omicidio eccellente.

A volte le prove non scompaiono dalla scena dei delitti eccellenti perché rappresentano l’ultimo segreto delle vittime che tengono nascosti in un cassetto o in una cassaforte oppure in una cartella o in computer o in un nastro magnetico o in un’agenda.

Quasi sempre le prove sono scomparse da casa o dall’ufficio della vittima.

Alcune volte le prove non vengono sottratte ma manomesse al punto tale da non essere più utilizzabili.

Chi fa sparire le prove?

A volte le prove non vengono sottratte dal killer specialmente se deve muoversi al di fuori della scena del crimine.

A volte invece le prove vengono sottratte direttamente dalla scena del delitto, già transennata dalle forze dell’ordine e all’interno della quale possono entrare solo persone autorizzate alle indagini.

In questo caso potremmo trovarci di fronte a personaggi  istituzionali che hanno ricevuto un ordine, oppure perché appartengono a “entità” distorte dello Stato, oppure per semplice denaro o forse anche perché minacciati.

Due uomini dello Stato: Contrada e D’Antone

Una traccia viene fuori non solo dalle numerose dichiarazioni dei collaboratori di giustizia che portarono, tra le altre cose, all’arresto e alla condanna definitiva a dieci anni, per concorso esterno in associazione mafiosa, di Bruno Contrada.

Una seconda direzione ci viene ad esempio dai rapporti intrattenuti con alcuni esponenti mafiosi dal funzionario di polizia Ignazio D’Antone, anch’esso condannato da una sentenza definitiva a dieci anni per concorso esterno in associazione mafiosa.

Due uomini dello Stato: Bruno Contrada e Ignazio D’Antone.

Ma cosa è emerso nei confronti di questi due uomini delle istituzioni?

Qui si sta celebrando una funzione religiosa, andate via

Catanese d’origine, morto nell’aprile del 2021 all’età di 81 anni, Ignazio D’Antone aveva ricoperto la carica di capo della squadra mobile di Palermo, dal settembre del 1981 all’aprile del 1985. Era stato un dirigente della Criminalpol per la Sicilia occidentale, fino all’aprile del 1989, funzionario dell’Alto commissariato per la lotta alla mafia e destinato nel 1992 all’ufficio di collegamento con il Sisde.

Nonostante si sia dichiarato sempre innocente una sentenza definitiva lo ha condannato a dieci anni per concorso esterno in associazione mafiosa.

In particolare la sentenza di condanna ha evidenziato come D’Antone ebbe a partecipare, presso la chiesa della Magione, nella notte di Natale del 1983, alla cerimonia di battesimo del nipote del boss latitante Pietro Vernego, storico mafioso, che comandò a lungo il mandamento di Santa Maria di Gesù a Palermo.

In quella chiesa, in quel giorno, si imbatté il commissario Beppe Montana, a capo della squadra catturanti e alle dirette dipendenza di Ninni Cassarà. Con lui Roberto Antiochia, che troverà la morte assieme al suo commissario il 6 agosto del 1985.

Il D’Antone, all’ingresso dei due funzionari polizia all’interno della chiesa, diretti ai primi banchi, bloccò i due funzionari di polizia pronunciando la frase “Qui si sta celebrando una funzione religiosa, andate via”.

A raccontare ai magistrati l’episodio sarà la madre di Roberto Antiochia e uno dei poliziotti che quella sera si trovava di pattuglia con Montana ed Atiochia.

Vernengo sarà catturato anni dopo nel 1991.

Il blitz fallito del Costa Verde e la smentita su Chinnici

Un altro episodio che viene citato è quello relativo all’invio di Ninni Cassarà, con una scusa, a Catania per non farlo presenziare alla perquisizione all’hotel Costa Verde di Cefalù, dove si teneva un banchetto di nozze della famiglia Spadaro, in cui sarebbero stati presenti alcuni latitanti. Fu lo stesso D’Antone a dirigere il blitz facendolo fallire nel gennaio del 1984.

Fu lo stesso D’Antone che smentì nel processo per l’omicidio di Rocco Chinnici il commissario Cassarà che aveva rivelato che il giudice istruttore assassinato voleva arrestare i cugini Ignazio e Nino Salvo i due potenti esattori siciliani legati alla famiglia mafiosa di Salemi, vicini all’eurodeputato democristiano Salvo Lima e a Giulio Andreotti. Episodio poi confermato dal giudice Paolo Borsellino e dal capitano Pellegrini.

“Nelle mani di Cosa Nostra”: le accuse dei pentiti

Si potrebbero citare alcuni collaboratori di giustizia che fecero il nome di D’Antone quali Salvatore Cancemi, legato ai corleonesi che dice di aver saputo da Giuseppe Zaccheroni che il dottor D’Antone è “nelle mani di Cosa Nostra, come Bruno Contrada”.

Oppure il pentito Francesco Di Carlo che ebbe a raccontare che in occasione del blitz di Villagrazia, del 19 ottobre del 1981, in cui era rimasto ferito un mafioso durante una sparatoria, il dottor D’Antone fece sapere tramite un giornalista amico del boss mafioso Stefano Bontate che quell’operazione doveva farsi per forza perché qualcuno aveva fatto la spia

“Io non ho colpa”: il D’Antone tra Bontate e i giornalisti

“Io non ho colpa”

Pare che ebbe a dire il D’Antone.

Erano anni davvero difficili a Palermo: il 21 luglio del 1979 cadeva sotto i colpi della mafia Giorgio Boris Giuliano poi toccò al capitano dei carabinieri Emanuele Basile, ucciso il 4 maggio del 1980 e tanti altri.

Le parole della moglie di Cassarà e del padre di Beppe Montana

La moglie del commissario Cassarà, in occasione del processo per la morte del marito non ebbe dubbi nell’affermare che suo marito non si fidava di D’Antone

“lo riteneva un uomo di Contrada…programmava le operazioni quando loro non erano in ufficio”

Luigi Montana il padre del povero Beppe Montana, ucciso il 28 luglio del 1985, ripeté dinanzi alla Corte nel processo per la morte del figlio

“Ninni Cassarà e Beppe Montana ritenevano che nei loro uffici ci fossero infiltrati, tanto che per comunicare utilizzavano dei bigliettini”

Una storia che continua

Contrada e D’Antona gli unici due uomini individuati e condannati con sentenze definitive.

Ma la storia continua….sulla scomparsa delle prove presto online la vienda giudiziaria di Bruno Contrada

Guglielmo Bongiovanni

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