“Non posso stringerle la mano, signor ministro”: la lettera che scosse l’Italia
È una delle lettere più forti mai scritte da una madre italiana.
Dopo l’uccisione del figlio Roberto, giovane agente della Polizia di Stato assassinato a Palermo il 6 agosto 1985 accanto al commissario Ninni Cassarà, Saveria Antiochia decide di parlare.
E lo fa con parole che sono pietre. Accuse precise, dirette, irrimediabili.
Accuse rivolte allo Stato, al Ministro degli Interni, alle istituzioni sorde, ai vertici ciechi che mandano a morire i migliori senza mezzi, senza protezione, senza verità.Pubblicare questa lettera oggi è un atto di memoria e di giustizia. Per Roberto. Per tutti i servitori dello Stato lasciati soli. Per tutte le madri che non hanno più lacrime.
Questa è la lettera integrale di Saveria Antiochia. Va letta tutta. Va diffusa. Va ricordata.

Un dolore che si è fatto rabbia
Signor Ministro degli Interni,
ho letto e riletto le sue parole e i suoi giudizi su quanto accade a Palermo e le scrivo per dirle che il mio dolore di madre è diventato anche rabbia, la stessa rabbia dei poliziotti di quella città.
Ho visto anch’io cose penose a Palermo e, in particolare, escludendo l’accorata sincera umanità del presidente Cossiga, mi è pesata la presenza dei soliti coccodrilli di Stato all’ennesima funzione in morte di un poliziotto. Parlo del funerale di mio figlio Roberto.
Chi era mio figlio
Aveva 23 anni.
La sua breve stagione si è conclusa con una raffica di mitra.
Aveva lasciato gli studi, la nostra casa, prospettive di lavoro con il fratello maggiore, per entrare con grande entusiasmo in polizia.
Aveva un ideale di giustizia e di legalità, sperava di dare un volto nuovo e più efficiente alla polizia, credeva di poter combattere malavita e mafia, credeva di poter migliorare questa società corrotta e degradata.
Per un anno e mezzo, a Palermo, aveva lavorato con Cassarà e Montana. Le difficoltà, la solitudine, la precarietà della Squadra Mobile, invece di scoraggiarlo, avevano aumentato il suo attaccamento al lavoro, ai superiori amici, ai colleghi – molti dei quali erano diventati per lui come fratelli.
Il trasferimento a Roma e il ritorno in Sicilia
Era stato trasferito a Roma a fine dicembre 1984, per accontentare la fidanzata e me, che non ce la facevamo più a vivere con tanta ansia e paura.
Era rimasto però con gran parte del suo cuore a Palermo, dove tornava in licenza e, alla fine, pure in ferie. Ci era tornato per i funerali di Montana e aveva chiesto di riprendere temporaneamente servizio a Palermo, rendendosi conto della situazione disperata, pericolosissima.
La solitudine della Squadra Mobile
Sapeva che il suo governo e il suo ministero, come sempre lontani mille miglia, avrebbero prodotto solo parole.
La Squadra Mobile e i pochi funzionari rimasti erano soli. Cassarà in prima linea.
Non gli era stata affidata nemmeno l’inchiesta sull’assassinio di Montana, chissà perché.
Non gli era stata messa una camionetta, che dico, un solo agente di guardia sotto casa. Mancavano sempre i mezzi, a quanto pare.
Un esercito di cartapesta
Cose strane sono accadute a Palermo in quei giorni.
Un giornalista di Repubblica le ha chiesto, signor ministro, perché a Palermo lo Stato avesse un “esercito di cartapesta”.
Forse perché fa comodo a molti, rispondo io.
Giusto, signor ministro: niente bugie di Stato, e lasciamo anche da parte la retorica sul sacrificio fatto per servire lo Stato.
Mio figlio è morto per la Squadra Mobile di Palermo, per la sua Squadra Mobile.
È morto nel volontario, disperato tentativo di dare a Cassarà un po’ di quella protezione che altri avrebbero dovuto dargli – in ben altra proporzione – sapendo quanto fosse preziosa la sua opera e in quale tremendo pericolo fosse la sua vita.
Lo Stato delle promesse mancate
Per questo provo tanta amarezza e tanto rancore verso questo potere governativo cieco e sordo, che raramente mantiene le sue promesse, che è pronto, rapido ed efficiente per i decreti “Berlusconi” o per trovare i fondi che raddoppiano il finanziamento dei partiti, mentre manda a morire indifesi, per carenza di mezzi e di volontà, uno dopo l’altro, gli uomini migliori delle forze dell’ordine e della magistratura.
Con questo Stato la lotta contro la mafia è davvero impari.
“Ha fatto bene a non venire al mio fianco”
Anche lei fa parte di quel potere governativo, signor ministro.
Ha fatto bene a non venire da me al Duomo di Palermo, non avrei potuto stringerle la mano e tanto meno lo potrei oggi.
Lei ha scoperto solo adesso quello che succede a Palermo: le due Questure, la Squadra Mobile isolata e con mezzi assolutamente inadeguati, le infiltrazioni mafiose.
Ma, mi scusi, signor Ministro degli Interni, lei dove vive? Di quali Interni si è occupato in questi anni del suo incarico?
Come fa a non sapere quello che la maggioranza degli italiani conosce da tanto tempo, perché ripetutamente denunciato dai magistrati, dai dirigenti della polizia siciliana?
Non legge i giornali, non guarda la Tv?
Davvero lei adesso si sta informando? Davvero ha ancora bisogno di relazioni ministeriali per sapere?
La protesta dei poliziotti
Niente bugie di Stato, ma non solo per la morte del giovane Marino.
Niente bugie di Stato, signor ministro, anche sulle ragioni della contestazione dei poliziotti.
Lei dice che è avvenuta solo a causa delle sospensioni e dei trasferimenti da lei decisi.
E invece quella contestazione, fatta da un gruppo di uomini generosi, capaci e coraggiosi, viene da lontano.
Viene da anni di lavoro durissimo e rischioso, in condizioni sempre più precarie.
Viene da vane speranze, da promesse disattese.
Viene da quel tragico corteo di morti, di colleghi e superiori barbaramente uccisi.
La decapitazione della Squadra Mobile
Lei non vuole sentirsi dire che ha decapitato la Squadra Mobile con quei trasferimenti.
Dice che è falso, perché è stata affidata a un funzionario esperto.
Non dubito che quel funzionario sia ottima e capace persona, ma ha dichiarato lui stesso, proveniente da Firenze, di non conoscere nemmeno le strade di Palermo.
Lei parla di sue decisioni sofferte, ma la sofferenza la lasci a noi che abbiamo avuto i morti.
Lei dice che avrebbe dovuto dimettersi se non avesse agito in quel modo.
Forse avrebbe fatto meglio.
Invece ha scelto di “dimettere” subito, e senza certezza di colpa, persone che non hanno poltrone preziose come la sua.
Infiltrazioni e responsabilità
Niente bugie di Stato.
Lei accetta l’ipotesi di infiltrazioni mafiose, forse in Questura, forse nella Squadra stessa.
E allora che fa? Si accontenta di essere stato bravo a capire?
Se ci sono, ce le teniamo queste spie?
Sono anni che vengono denunciate. Pensiamo alla morte di Boris Giuliano, alla morte annunciata di Rocco Chinnici.
E la mafia non avrà calato la sua mano pesante anche nella strana vicenda che ha portato alla morte di Marino?
Un esercito senza mezzi, uomini lasciati soli
Che tragedia, signor ministro, e quanto grande e terribile è la sua responsabilità.
Ho vissuto vicino a mio figlio in questi anni.
Ho soggiornato spesso a Palermo. Ho conosciuto funzionari e colleghi.
Ho visto che non avevano le macchine chieste da più di un anno.
Ho visto le alfette da inseguimento rattoppate, malridotte e riconoscibili anche dai bambini.
Ho visto gli agenti usare le macchine personali o farsele prestare dagli amici.
Ho visto disputarsi l’unico binocolo a disposizione.
Ho visto i funzionari pagare gli informatori di tasca loro.
Sono solo esempi. Piccoli esempi di una grande sordità.
Le voci disperate al funerale
Se lei fosse stato meno preoccupato per la sua incolumità, il 7 agosto, al Duomo di Palermo, avrebbe sentito in mezzo alle proteste degli agenti le nostre voci disperate.
Quella di Assia, la fidanzata di Montana.
La mia.
Quella di Cristina, la fidanzata di mio figlio.
Quella di Alessandro.
Ma soprattutto quella di Roberto dalla sua bara.
La chiusa che graffia la coscienza
E ora vada pure a dormire tranquillo, signor ministro, recitando le sue preghiere.
Io non ci riesco più,
me lo impedisce il mio dolore
e una rabbia che non è solo mia.
Saveria Antiochia
Lettera tratta dal libro di Jole Garuti, In nome del figlio, Melampo Editore
Lettera molto toccante intrinseca di dolore è un urlo di una madre che ha perso un figlio in giovane età per il senso del dovere, ma noi Stato abbiamo mai avuto il senso del dovere? Visto i risultati penso proprio di no!
#lamafiaèunavalangadimerda