“Roberto Antiochia: il poliziotto che scelse di morire accanto a Cassarà”

Ninni Cassarà e Roberto Antiochia, assassinati a Palermo il 6 agosto del 1985

Roberto Antiochia: il giovane eroe dimenticato caduto accanto a Ninni Cassarà

Nella lunga e sanguinosa battaglia contro la mafia, esistono nomi che il tempo tenta di cancellare, figure luminose offuscate dall’oblio collettivo. Roberto Antiochia è uno di questi.

Un ragazzo di appena 23 anni, un agente di Polizia, un uomo dello Stato caduto il 6 agosto 1985 sotto una tempesta di piombo mafioso in via Croce Rossa a Palermo, insieme al commissario Ninni Cassarà. Il suo nome dovrebbe essere inciso nella memoria del Paese, ma troppo spesso viene lasciato ai margini delle celebrazioni ufficiali, come se il suo sacrificio fosse secondario. Non lo era. Non lo è. Ed è dovere di chi ancora crede nella giustizia e nella verità ricordarlo, raccontarlo, gridarlo.

Il giorno del massacro

È il 6 agosto del 1985. Palermo è un campo di guerra, e i soldati dello Stato sono pochi, stanchi, isolati. Ninni Cassarà sta rientrando a casa. La sua auto percorre via Croce Rossa. È solo un tratto di strada, ma diventa l’ultima. Dall’alto, dai balconi, da più appartamenti, si scatena l’inferno: una pioggia di proiettili travolge la vettura. Cassarà muore sul colpo. Poco dopo muore anche lui, il più fedele dei suoi uomini, l’agente Roberto Antiochia. Aveva deciso di restare per proteggerlo, per stargli accanto, per non lasciarlo solo in un momento in cui lo Stato sembrava aver abbandonato i suoi servitori migliori.

Un figlio, un servitore, un esempio

Roberto era un ragazzo romano, figlio di Saveria Gandolfi, insegnante in una scuola media, donna colta, sensibile, che nel tempo libero dipingeva stoffe. Aveva frequentato il liceo artistico e, come tanti giovani idealisti, sognava un mondo più giusto. Per questo aveva scelto la Polizia. Credeva – e lo credeva davvero – che indossare quella divisa potesse essere un mezzo per cambiare la società. Non per potere, non per carriera. Per giustizia.

Quando il dottor Beppe Montana viene ucciso il 28 luglio 1985, è una ferita profonda per Roberto. Piange, si dispera. Era a Roma, aveva ottenuto da poco il trasferimento, ma non ci pensa due volte: prende un volo e torna in Sicilia. Voleva esserci al funerale, voleva trovare gli assassini, voleva combattere.

“Non lo posso lasciare solo, il dottore Cassarà. Non ha nessuno che gli guardi le spalle nemmeno sotto casa”

confida alla madre. E così resta, ottiene un permesso speciale per ritardare il rientro a Roma. Fino a quel maledetto 6 agosto.

Saveria Gandolfi Antiochia, mamma di Roberto Antiochia

Le parole di una madre che non ha mai smesso di lottare

La morte di Roberto segna un punto di non ritorno nella vita di Saveria Gandolfi Antiochia. Ma non si lascia schiacciare. Partecipa alle indagini, si costituisce parte civile, e soprattutto gira l’Italia per parlare ai ragazzi. Entra nelle scuole, negli auditorium, porta la memoria viva di suo figlio dove lo Stato spesso tace. Con una convinzione profonda:

“Per sconfiggere la mafia non bastano tribunali e polizia. Bisogna educare. Bisogna trasmettere ai giovani i valori della giustizia e della legalità”.

Il 30 marzo 1993, davanti alla Corte che processa gli assassini di Cassarà e Montana, Saveria Gandolfi viene chiamata a testimoniare. Parla di suo figlio, di quelle telefonate che ricevette nei giorni precedenti all’omicidio. Racconta il dolore di Roberto, la sua determinazione, la sua paura. E rivela particolari agghiaccianti:

“Lavoravano come degli isolati… in ufficio perfino evitavamo di non parlare forte e per le cose più delicate ci scambiamo dei foglietti che poi distruggiamo… c’era qualcosa di oscuro… non si fidavano di alcuni loro colleghi”.

È una frase che gela il sangue. In quegli anni a Palermo, la mafia uccideva, ma il sospetto peggiore era che il nemico si annidasse anche all’interno delle stesse istituzioni. Che l’isolamento, il tradimento, l’abbandono venissero non solo dalla criminalità organizzata, ma da certi silenzi, da certe omissioni, da certe connivenze.

La squadra dimenticata

Roberto Antiochia faceva parte della squadra di Ninni Cassarà, insieme a Beppe Montana e Calogero Zucchetto. Tutti uccisi. Tutti lasciati soli. Erano giovani, motivati, determinati. Avevano fame di giustizia, ma combattevano in condizioni disumane.

Racconta Saveria:

“Erano pochissimi uomini, privi di mezzi… si erano perfino comprati un binocolo a rate facendo la colletta e facevano delle operazioni piuttosto rischiose, lavorando anche di sera fuori dal servizio”.

Un’immagine indegna per un Paese che diceva di voler sconfiggere la mafia. Eppure, loro non si fermavano. Nonostante tutto. Nonostante la paura. Nonostante sapessero che stavano combattendo in trincea, da soli. Come aveva scritto un giornale siciliano dopo l’attentato a Rocco Chinnici: “Palermo come Beirut”. E in quella Beirut, quei ragazzi della Polizia di Stato erano carne da macello.

La memoria tradita

Oggi, il nome di Roberto Antiochia è sbiadito nella coscienza collettiva. Non abbastanza vie a lui dedicate, non abbastanza libri, non abbastanza scuole che portano il suo nome. Ma se questo Paese vuole avere una speranza di rinascita, deve partire da qui. Deve partire da lui. Dai suoi 23 anni vissuti con coraggio. Dalla sua scelta di tornare in Sicilia, di proteggere il suo superiore, di restare al fianco di un uomo che la mafia voleva morto.

La memoria non è solo commemorazione. È un dovere civile. È il risarcimento minimo che lo Stato può offrire a chi ha dato la vita. A chi, come Roberto, ha scelto da che parte stare e non ha mai voltato le spalle, neppure quando sapeva di andare incontro alla morte.

Perché Roberto Antiochia, come Luigi Ilardo, come tanti altri martiri della legalità, è stato tradito due volte: la prima dai proiettili, la seconda dall’oblio.

E noi, oggi, abbiamo una sola possibilità per riscattare questo tradimento: raccontare, ricordare, educare.

“Ma il grido più forte lo lanciò sua madre, Saveria Antiochia, con una lettera aperta che fece tremare i palazzi del potere. Una lettera che ancora oggi merita di essere letta. La pubblichiamo integralmente in un post dedicato.”

Leggi la lettera della madre di Antiochia che scosse L’Italia

La storia di Roberto Antiochia morto accanto a Ninni Cassarà

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