Il pacco di biscotti e il silenzio di Stato: la condanna accelerata di Luigi Ilardo
Tra mafie, carceri e depistaggi: il collaboratore Santo La Causa racconta il messaggio omicida nascosto nei dolci. Ma sui mandanti, il silenzio è assordante.
Se dovessimo usare un linguaggio giornalistico, potremmo dire che l’omicidio di Luigi Ilardo rientra a pieno titolo tra i grandi misteri irrisolti della Repubblica italiana. Ma sarebbe riduttivo. Perché la sua morte non fu solo un’esecuzione di mafia, fu un messaggio, una vendetta, un sacrificio utile — a più di qualcuno — in nome di un patto. Quel patto indicibile tra pezzi delle istituzioni e la criminalità organizzata, che aveva come obiettivo la fine della stagione stragista inaugurata con l’assassinio di Salvo Lima e culminata con le stragi del ’92-’93.
In questo contesto, la deposizione di Santo La Causa si rivela determinante: disegna uno scenario mafioso interno al clan catanese in cui maturò la decisione – frettolosa, calcolata e carica di retroscena – di tappare per sempre la bocca all’infiltrato Ilardo. Dalle sue parole emergono dettagli sconcertanti e interrogativi irrisolti.
Una domanda esplosiva: la Sicilia orientale coinvolta nella trattativa?
Nel biennio 1995/1996 Santo La Causa ricopriva in seno a “cosa nostra” il ruolo di soldato e seppur non era un uomo d’onore, la famiglia Santapaola lo considerava come tale tanto che l’”alter ego” del capo Nitto Santapaola, Aldo Ercolano, dal carcere dell’Asinara, dov’era detenuto, aveva inviato un messaggio chiaro:
“La Causa doveva essere iniziato all’interno di Cosa Nostra è battezzato come uomo d’onore”.
Siamo nel periodo dove la famiglia catanese dei Santapaola era governata da una specie di co-reggenza formata da quattro uomini: Aurelio Quattroluni (responsabile del clan in qual momento storico); Vito Licciardello; Salvatore Cristaldi e Giuseppe Mangion (detto Enzo), che reggevano le file e dietro di loro vi era Salvatore Santapaola, al tempo, rappresentante Provinciale di “cosa Nostra” per la “Sicilia Orientale”.
La Causa, poi divenuto collaboratore di giustizia, specifica anche che in quel periodo all’interno di Cosa Nostra vi erano dei contrasti nati dopo l’omicidio di Vito Licciardello.
Il delitto Grazia Minniti e l’ombra dei servizi
Omicidio, questo del Licciardello, i cui responsabili furono gli stessi uomini che in quel momento reggevano le fila dell’organizzazione Santapaola, in particolare l’Aurelio Quattroluni.
Oltre alle invidie, gelosie ed equilibri che probabilmente stanno alla base dell’eliminazione del Licciardello, il quale, come già detto, godeva della piena fiducia della famiglia Santapaola, ricoprendo anche un ruolo apicale e di un certo spessore (mai approvato dall’ Aurelio Quattroluni).
Questa la lettura data nella ricerca della vera motivazione ufficiale dell’eliminazione del Licciardello in un momento dove tutto il clan era impegnato nella ricerca degli autori del delitto della moglie di Benedetto Santapaola, Grazia Minniti.
Delitto inspiegabile per certi versi e che preoccupava enormemente gli uomini del clan Santapaola. Sembrerebbe che il Vito Licciardello abbia portato la notizia che ad uccidere la Grazia Minniti siano stati i servizi segreti, poiché questa aveva data “segnali” di “debolezza“, dopo l’arresto del figlio piccolo Francesco Santapaola.
“Debolezza” o eventuale collaborazione” che avrebbe potuto creare forti squilibri, qualora fosse avvenuta, persino in “ambienti di stato”.
Il Quattroluni approfittò di questa notizia per ritenere il Licciardello in qualche modo “vicino” ad ambienti polizieschi e per tale motivo venne prima torturato e poi ucciso.
Insomma le solite tragedie che da sempre animavano le storie di mafia in particolar modo nella Provincia di Catania.
Omicidio del Licciardello che pare sia stato commesso all’insaputa di Aldo Ercolano e del Benedetto Santapaola.

L’ascesa di Maurizio Zuccaro e il “gruppo autonomo”
Nelle sue deposizioni Santo La Causa si concentra anche sulla figura di Maurizio Zuccaro che poi sarà condannato all’ergastolo per l’omicidio Ilardo.
La Causa, cercò un “avvicinamento” allo Zuccaro Maurizio dopo l’omicidio di Licciardello perché, essendo molto legato al Licciardello, era preoccupato per la sua stessa vita in quanto La Causa e Licciardello avevano condiviso un percorso criminale comune all’interno del “vecchio” gruppo criminale dei Ferrera. Pertanto, dopo aver parlato con Salvatore Chiavetta, autista del Licciardello, questo gli consigliò di “avvicinarsi” a Maurizio Zuccaro essendo un personaggio a cui si poteva rivolgere per capire se vi erano fondate ragioni che avrebbero potuto spingere Cosa Nostra ad uccidere lo stesso La Causa.
Da quel momento in poi, dopo l’incontro con Zuccaro, in una prima fase, lo stesso La Causa divenne parte del gruppo retto da Zuccaro che comprendeva anche Benedetto Cocimano, Maurizio Signorino, Angelo Testa, Pietro Giuffrida. Gruppo criminale che godeva di una certa autonomia “operativa” essendo il Maurizio Zuccaro un parente del citato Salvatore Santapaola (fratello di Nitto) avendone sposato una sorella della moglie di Enzo Santapaola figlio di Salvatore Santapaola e quindi divenuto suo cognato.
La Causa precisa anche che questo gruppo, originariamente, era il gruppo di Enzo Santapaola, figlio di Salvatore Santapaola. Maurizio Zuccaro, essendo suo cognato Enzo Santapaola detenuto nè apporofitta prendendo in mano la guida di questo gruppo criminale “autonomo” ma inserito nel contesto del clan Santapaola.
Era necessaria questa breve premessa per conoscere il contesto storico entro il quale maturò l’omicidio Ilardo.


Un ordine di morte nei biscotti
Santo La Causa afferma che non conosceva Luigi Ilardo personalmente ma seppe di lui quando pervenne dal carcere l’ordine di uccidere l’infiltrato catanese. Solo in questa occasione seppe che Ilardo era il cugino di Piddu Madonia di Caltanissetta, nonché un esponente di rilievo di quella famiglia.
Santo La Causa precisa anche che furono diversi i messaggi che ricevettero dal carcere. Messaggi che con insistenza chiedevano l’urgente eliminazione di Gino Ilardo.
A quanto racconta La Causa una parte questi messaggi furono trasmessi da Enzo Santapaola a Zuccaro.
A quanto pare anche ad Aurelio Quattroluni arrivarono dei messaggi con i quali si chiedeva l’eliminazione dell’Ilardo.
La Causa rivela anche il nome del mittente del messaggio di conferma dell’eliminazione di Gino Ilardo fatto arrivare a lui stesso da Enzo Ercolano, fratello di Aldo Ercolano il quale, all’epoca, seppur detenuto, secodo il racconto del collaboratore La Causa, sarebbe riuscito a trasmettere l’ordine per commettere l’omicidio di Ilardo consegnando al fratello Enzo Ercolano, che era andato a trovarlo in carcere, un bigliettino chiuso in un pacco di biscotti che conteneva l’ordine perentorio e urgente di uccidere Ilardo.
Alla consegna del pacco di biscotti Enzo Ercolano pare che ebbe a dire a La Causa
“è un messaggio che ti manda mio fratello Aldo con l’accordo e l’autorizzazione a commettere urgentemente l’omicidio da Vincenzo Santapaola, figlio di Salvatore Santapaola, Antonio Motta (altro importante esponente del clan) e Enzo Santapaola, figlio di Benedetto Santapaola”.
Eppure in questa tragica vicenda qualcosa non sembra tornare.
La giustizia selettiva: nomi esclusi e responsabilità ignorate?
Infatti la Procura di Catania inquisì e condannò all’ergastolo, tra i nomi citati sopra, per l’omicidio Ilardo, solo Enzo Santapaola, figlio di Salvatore Santapaola.
Massimo rispetto per il lavoro che ha svolto la Procura di Catania in questa vicenda ma ci corre l’obbligo di porre un interrogativo a cui non riusciamo a trovare risposte:
Perché non vennero mai inquisiti Aldo Ercolano insieme al fratello Enzo, all’Antonio Motta e il figlio di Nitto Santapaola, Enzo?
Perché le loro posizioni rispetto al delitto Ilardo non sono mai state approfondite?
Perché questo pacco di biscotti che proverebbe la fretta nell’uccisione di Ilardo non venne considerato e archiviato?
Il mistero del carcere e il patto tra Madonia ed Ercolano
Aldo Ercolano e Piddu Madonia, prima dell’omicidio di Ilardo, erano stati detenuti presso la stessa struttura carceraria?
Si sono mai incontrati in qualche processo per cui il “Piddu Madonia” abbia potuto chiedere questo “favore” di effettuare l’omicidio Ilardo al clan Santapaola tramite l’Aldo Ercolano?
Del resto sarà lo stesso Maurizio Zuccaro, che seppur negando l’episodio raccontato da La Causa, a “denti stretti”, durante il processo per l’omicidio Ilardo, fa riferimento a questo pacco di biscotti che spiegherebbe la fretta di uccidere Luigi Ilardo.
Su questo versante si pone un interrogativo centrale per spiegare il processo di accelerazione della decisione di tappare per sempre la bocca ad Ilardo
Aldo Ercolano e Piddu Madonia, prima del delitto Ilardo, come già presupposto, sono stati detenuti nella stessa struttura carceraria o sono stati imputati in un medesimo procedimento per cui avrebbero avuto il modo di incontrarsi?
Su questi dubbi ci ritorneremo a breve.
Un delitto da chiudere subito: la fretta che insospettisce
Il La Causa ricevuto il pacco di biscotti, a questo punto della nostra storia, si reca da Maurizio Zuccaro per dare conferma della fretta di uccidere Ilardo. Scelta che risultava, a detta di La Causa, inspiegabile.
Ma a quanto pare Maurizio Zuccaro era già a conoscenza di questa decisione e anzi, sempre dal racconto che ne fa La Causa, chiedeva che si doveva fare in fretta per anticipare Aurelio Quattroluni, all’epoca uno dei reggenti della famiglia mafiosa di Catania destinatario anch’esso dei messaggi che decretavano di porre fine alla vita dell’Ilardo.
Del resto si trattava di un omicidio eccellente. Si trattava di eliminare il cugino di Piddu Madonia, un personaggio che aveva rivestito dentro Cosa Nostra un rilievo e uno spessore notevole.
L’alibi dell’omicidio Famà: un depistaggio costruito ad arte?
Il pentito non conoscendo il vero ruolo di infiltrato, per conto dello Stato, di Ilardo, ha precisato che i motivi che decretarono la sentenza di morte, andavano ricercati nella vicenda dell’omicidio dell’avvocato Serafino Famà.
Ci sembra una motivazione del tutto irrisoria che potrebbe farsi rientrare, invece, nel processo di sistematico depistaggio che si mise in moto anche all’interno di Cosa Nostra con l’intento di sviare le indagini per nascondere i reali motivi dell’uccisione del collaboratore di Michele Riccio.
Difatti si scoprì nel 1997, grazie alle rivelazioni di Alfio Giuffrida, che nel frattempo si era pentito, che l’avvocato Famà venne eliminato su ordine dell’allora reggente dei Laudani, Giuseppe Di Giacomo.

Zuccaro confidente? Il sospetto che cambia tutto
La Causa si spinge oltre accusando Maurizio Zuccaro di “essere un confidente dei carabinieri”, cosa confermata da un altro collaboratore, Eugenio Sturiale e dal Commissario della DIA Mario Ravidà, che raccoglieva le confidenze dello Sturiale.
Anche questa affermazione del La Causa, dello Sturiale e del Ravidà, non sarebbe mai stata veramente approfondita e provata perché se fosse vera, aprirebbe uno scenario del tutto nuovo che potrebbe spiegare definitivamente quella fretta nell’uccidere Gino Ilardo e anche le motivazioni per cui Maurizio Zuccaro da condannato all’ergastolo era sempre beneficiario di arresti domiciliari.
Nonché, potrebbero trovare ulteriore riscontro le dichiarazioni di un altro importante collaboratore di giustizia, Pietro Riggio, che addirittura conferma il ruolo di confidente del Maurizio Zuccaro e si spinge ad affermare che a determinare l’omicidio di Ilardo Luigi sarebbe stato un “Capitano dei Carabinieri” che lavorava alla caserma di Piazza Giovanni Verga a Catania.
Maria Stella Madonia: la postina della verità
Se questi episodi raccontati vengono uniti alla vicenda della notifica dell’atto di differimento pena alla sorella di Piddu Madonia, Maria Stella Madonia, invece che all’Ilardo che ne era il destinatario, da parte degli uomini del Capitano Damiano dei Carabinieri, il quadro della ricostruzione della fretta di uccidere Ilardo sembra essere ancora più chiaro.
Con la notifica Maria Stella Madonia ha conferma che Ilardo era prossimo al pentimento, quindi che stava saltando il fosso, come ebbe a confermare anche il pentito Giovanni Brusca sentito nel processo per l’omicidio del collaboratore del colonnello Michele Riccio.
Maria Stella Madonia, come risulta da numerose sentenze faceva da trade union tra suo fratello e Bernardo Provenzano, ed era la postina, se ci è concesso il termine, incaricata di portare fuori dal carcere gli ordini di Piddu Madonia e che, verosimilmente, comunica al fratello che Ilardo stava per pentirsi.
A questo punto la logica ci porterebbe a pensare che Madonia, probabilmente detenuto nello stesso carcere con Aldo Ercolano o imputato in un medesimo processo, dà mandato a quest’ultimo che bisognava uccidere subito Gino Ilardo.
Come fare?
Attraverso il pacco di biscotti di cui parla il collaboratore La Causa.
Da qui altri interrogativi emergono legittimamente?
Non vi è dubbio che Piddu Madonia era uno storico alleato di Bernardo Provenzano.
Non vi è dubbio che a cadere nelle mani della giustizia sono invece molti boss legati alla strategia stragista. Per citarne alcuni: Totò Riina, Nitto Santapaola, Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca, poi divenuto collaboratore di giustizia, e tanti altri. In poco tempo l’ala stragista di Cosa Nostra venne decimata.
Forse dietro queste operazioni ci stava dietro quell’indicibile patto che una parte di Cosa Nostra aveva stipulato con lo Stato per fermare le stragi che hanno insanguinato il nostro Paese nel biennio 1992/1993?
Lo vedremo a breve nella seconda parte…!
Guglielmo Bongiovanni