“Diciassette anni prima: la verità ignorata sulla morte di Ilardo”
Un mosaico di rivelazioni
L’omicidio di Luigi Ilardo non fu per Cosa Nostra un’esecuzione qualsiasi. Dietro quei nove colpi di pistola esplosi la sera del 10 maggio 1996 in via Quintino Sella, a Catania, c’era la consapevolezza di colpire un uomo diventato pericoloso non solo per le conoscenze acquisite da affiliato, ma soprattutto per la sua scelta di collaborare con lo Stato.
Già nel 2000, il Tribunale di Gela – nel procedimento “Grande Oriente” – aveva raccolto numerose testimonianze di collaboratori di giustizia che, pur parziali e da confermare negli anni successivi, tratteggiavano un quadro chiaro: Luigi Ilardo era stato ucciso perché la sua doppia vita da infiltrato era stata scoperta. Una fuga di notizie, una rete di depistaggi e silenzi, e il sospetto che a tradirlo non fosse soltanto la mafia.
Le voci dei pentiti, anche se spesso provenienti da ambienti diversi, convergevano su elementi cruciali: la regia dell’omicidio da parte della famiglia Madonia, l’affidamento dell’esecuzione al gruppo catanese di Maurizio Zuccaro e la rottura irreparabile con i vertici di Cosa Nostra.
In questa sezione analizzeremo, uno per uno, i racconti dei principali collaboratori sentiti nel processo di Gela, componendo così il primo tassello del nostro confronto con la successiva sentenza catanese del 2017, in particolare con quanto ebbero a dichiarare Giovanni Brusca e Antonino Gioè.
Le conclusioni a cui si perviene dalla lettura delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia sono nette e chiariscono, seppur parzialmente, i contorni misteriosi che ci stanno dietro quei nove colpi d’arma da fuoco
Ilardo stava collaborando
La notizia fu fatta trapelare
I vertici mafiosi reagirono
L’ordine di morte partì da Giuseppe Madonia.
Nessuno fece nulla per proteggerlo

Angelo Mascali: “Fu ucciso perché collaborava con la DIA. L’omicidio fu organizzato da Zuccaro”
Tra le dichiarazioni raccolte nel processo “Grande Oriente” troviamo quella di Angelo Mascali, reggente del gruppo mafioso di Monte Po, è una delle più gravi e significative. Mascali non solo riferisce che Luigi Ilardo fu “posato” dalla famiglia Madonia prima della sua esecuzione, ma chiarisce il movente profondo dell’omicidio: l’infiltrazione e la collaborazione con la Direzione Investigativa Antimafia (DIA).
Queste le sue parole, come riportate dalla Corte:
“Ilardo Luigi venne ucciso perché era stata scoperta la sua collaborazione con la DIA”
Tale notizia venne riferita al Mascali da Enzo Santapaola, figlio di Salvatore Santapaola e nipote di Nitto Santapaola.
È una dichiarazione cristallina, che lascia cadere ogni alibi. Per Mascali, non si trattò di un regolamento interno, né di vendette personali, né di questioni di denaro: fu una sentenza di morte emessa perché Ilardo era un uomo dello Stato.
La Corte sottolinea come tale rivelazione si collochi all’interno di un quadro più ampio, già confermato da altri collaboratori, e che Mascali dimostra di conoscere con esattezza. Aggiunge infatti che prima di essere ucciso, Ilardo era stato “posato” da Giuseppe Madonia, segnale inequivocabile che la fiducia nei suoi confronti era venuta meno e che era in atto un isolamento deliberato:
“Mascali Angelo […] ha riferito che l’Ilardo, prima di essere ucciso, era stato ‘posato’ dal Madonia. Tale dato costituisce uno degli indizi più gravi che inducono a ritenere che Madonia Giuseppe abbia dato il suo assenso, anche se solo implicito, alla eliminazione del congiunto Luigi Ilardo”.
Dunque, l’ordine di morte non venne da un gruppo isolato o da una dinamica di periferia. Fu una scelta ben ponderata, ratificata – almeno sul piano simbolico – da uno dei vertici di Cosa Nostra siciliana, e connessa alla scoperta della doppia vita di Ilardo come infiltrato per conto del colonnello Riccio.
La posizione di Mascali è netta, definitiva, e verrà confermata in sentenze successive: Ilardo fu ucciso perché lo Stato aveva perso il controllo su un proprio agente sotto copertura, e la mafia, invece, lo aveva individuato. In quel preciso momento – secondo Mascali – la sua sorte era già segnata.
Mascali aggiunse, però, un altro dettaglio rilevante che chiamerà in causa anche la succesiva sentenza della Corte d’assise di Catania del 2017: l’omicidio fu organizzato da Maurizio Zuccaro, cognato di Enzo Santapaola.
Su questa ambigua figura torneremo a parlare in seguito, qui basta segnalare ai nostri lettori che Zuccaro venne condannato all’ergastolo, nel 2017, in quanto ritenuto uno degli organizzatori dell’omicidio Ilardo.
Ma le sorprese non finiscono qua perchè dalla bocca del Mascali venne fuori un altro nome che solo nel 2017, anch’esso, venne condannato al carcere a vita perchè ritenuto uno dei componenti del commando che agì in via Quintinio Sella: Santo La Causa con cui Mascali aveva un ottimo rapporto
Eravamo come i fratelli, eravamo persone molto affiatate, perchè ha da molto tempo che noi ci conosciamo
Fu lo stesso La Causa che gli confermò di essere l’esecutorie materiale dell’omicidio Ilardo su mandato del suo capogruppo Maurizo Zuccaro
“ma zu’ Maurizio mi fici ammazzare a chiusti, cose che noi non ci interessava”
Tale notizia il reggente del gruppo di fuoco di Monte Pò l’aveva già appresa dal loquace Enzo Santapaola.
La confidenza fatta da La Causa a Mascali deve farci riflettere.
Forse il quadro che emergeva da quelle parole era davvero inquietante a cominciare dalla fretta che l’operazione delittuosa aveva assunto: Ilardo doveva morire subito probabilmente era troppo scomodo e stava per pentirsi.
Sebastiano Mascali: “Fu ucciso perché collaborava con la DIA. A Catania lo sapevano tutti”
Nella rete di testimonianze che comincia a emergere già nel 2000, nel procedimento “Grande Oriente” celebrato a Gela, anche Sebastiano Mascali, fratello di Angelo e anch’egli collaboratore di giustizia, offre una tessera significativa del mosaico sulla morte di Luigi Ilardo. E sebbene le sue parole siano più caute, emergono tra le righe due elementi di enorme rilevanza: la consapevolezza diffusa che Ilardo stesse collaborando con la DIA, e la responsabilità del gruppo catanese facente capo a Maurizio Zuccaro nell’esecuzione dell’omicidio.
La Corte riporta che Sebastiano Mascali apprese dell’omicidio mentre si trovava in carcere, e ne discusse con Enzo Santapaola che gli confidò che l’omicidio era stato eseguito per suo stesso volere da gruppo capeggiato da suo cognato Maurizio Zuccaro
L’abbiamo ucciso noi perchè era confidente dei Carabinieri.
Un’affermazione tanto sintetica quanto devastante, che già allora faceva intuire che la protezione su Ilardo era saltata ben prima della sua ufficializzazione come collaboratore di giustizia. In carcere – e non solo tra i mafiosi – era ormai vox populi che Luigi Ilardo stesse fornendo informazioni ai carabinieri e alla DIA, e questa consapevolezza non lasciava spazio ad ambiguità: nel codice mafioso, la morte era inevitabile.
Il tribunale di Gela osserva che, sebbene Mascali non menzioni i mandanti, le sue dichiarazioni «indicano che ne conosceva i particolari», e che l’identità degli esecutori era perfettamente nota all’interno della struttura mafiosa già nel 2000.
Giuseppe Lanza: il movente, la DIA e il nome dell’esecutore
Lo scenario fin qui delineato viene confermato dalle dichiarazioni di Giuseppe Lanza, affiliato al gruppo mafioso di Catania legato ai Santapaola, appartenente al gruppo di Monte Po. Combinato uomo d’onore nel 1998, diviene collaboratore di giustizia nell’agosto dello stesso anno.
Lanza offre una delle ricostruzioni più dirette e sconvolgenti dell’omicidio di Luigi Ilardo. La sua testimonianza, resa il 1° febbraio 2000, fa emergere un quadro dirompente, in cui si mescolano collaborazioni sotto copertura, sospetti interni a Cosa Nostra e perfino episodi di presunta corruzione nelle istituzioni.
Il collaboratore ha dichiarato apertamente:
«[Ilardo ndr] era stato ammazzato… perché collaborava con la D.I.A.… (con il) colonnello Ricci [cioè Michele Riccio, colonnello dei Carabinieri in servizio presso la D.I.A. e dal 1995 presso il R.O.S., ufficiale di polizia giudiziaria titolare della Fonte Oriente, nome di copertura sotto cui era convenzionalmente denominato l’informatore Ilardo Luigi]»
A questa prima, decisiva affermazione, Lanza aggiunge un dettaglio che conferma l’alto rischio in cui si trovava Ilardo:
«Il motivo principale dell’omicidio era ovviamente la necessità di interrompere il rapporto confidenziale con la polizia giudiziaria»
Ilardo era quindi percepito come un uomo dello Stato, un confidente capace di minare dall’interno l’intera struttura mafiosa etnea. Questo rapporto con la DIA – che nei fatti si rivelò di altissimo livello – non era ignoto agli ambienti criminali.
Anzi, secondo Lanza, Ilardo con il suo comportamento aveva dato fastidio a Catania a tutti: alla famiglia Santapaola, al gruppo di Maurizio Zuccaro, al gruppo di Monte Po.
Ed è proprio il nome di Maurizio Zuccaro che Lanza fa emergere come il capo operativo dell’esecuzione.
Seppur l’omicidio in un primo monento era stato demandato ad Aurelio Quattroluni, quindi al gruppo di fuoco di Monte Po, era stato poi seguito dal gruppo capeggiato da Maurizio Zuccaro.
Su questo aspetto ci torneremo a breve perchè in questo passaggio potrebbe leggersi il vero movente che produsse quell’accelerazione nella decisione di uccidere Ilardo come prospettata, del resto, dal sostituto Pasquale Pacifico a cui si deve il merito di aver aperto un fascicolo di indagine sull’omicidio Ilardo che si concluse con una sentenza di condanna nel 2017 contro il commando che uccise l’infiltrato catanese.
Ad ogni modo in questa sede va tenuta bene in mente che la morte di Ilardo fu pianificata e affidata a Maurizio Zuccaro.
L’ordine, a quanto pare, veniva dai piani alti e l’obiettivo era semplice: interrompere ogni possibile collaborazione con la polizia giudiziaria prima che diventasse pubblica.
Ma c’è un passaggio che rende la testimonianza di Lanza ancora più inquietante, perché apre uno squarcio su una presunta rete di corruzione interna alla stessa DIA. Lanza racconta di essere stato coinvolto – tramite Lello Quattroluni e Orazio Scali, entrambi affiliati al gruppo mafioso di Monte Po, in una vicenda legata alla consegna di denaro a funzionari della DIA:
«Scalia mi ha informato anche che lui l’aveva saputo tramite Lello Quattroluni, che aveva dei contatti con persone della D.I.A., ai quali noi fornivamo dei soldi per… informazioni…».
E poco dopo aggiunge:
«QUATTROLUNI, prima del suo arresto, a me aveva chiesto di consegnare cinque milioni (di lire), tramite un’altra persona di Monte Po, a dei poliziotti – che quella persona stessa mi doveva fare conoscere – della D.I.A., perché gli avevano dato questi tipi di informazioni…»⁴.
Il flusso di denaro non si concretizzò perché, racconta Lanza, il contatto si interruppe con l’arresto di Quattroluni nel giugno 1996:
«… cosa che io non ho continuato più perché, subito dopo, a giugno (1996), è stato arrestato il QUATTROLUNI… non ho avuto più risposte a chi consegnare quei soldi là e non so come è andata a finire…»
Questo episodio, gravissimo, inserisce nel quadro dell’omicidio Ilardo un elemento troppo spesso ignorato: mentre Ilardo rischiava la vita per il lavoro svolto sotto copertura, esistevano presunti canali infedeli all’interno dello Stato che – se veri – avrebbero potuto compromettere l’intera operazione.
In effetti, a volerla dire tutta, l’operazione venne compromessa perchè, nonostante Luigi Ilardo avesse portato lo Stato ad un passo dalla cattura di Bernardo Provenzano, qualcuno decise di non intervenire nel casolare di Mezzojuso dove si nascondeva Binnu u tratturi.
Ma il dato più grave che registriamo in questa tragica storia e che in un secondo momento qualcuno si macchiò di una colpa più grave mettendo in giro la notizia che Ilardo stava parlando con la Dia. Una fuga di notizie che sancì la condanna a morte dell’Ilardo.
Continua…
Con la testimonianza di Giuseppe Lanza si chiude una delle pagine più dense e inquietanti.
Le sue parole, nette e dettagliate, confermano il movente dell’omicidio di Luigi Ilardo — la scoperta della sua collaborazione con la DIA — e illuminano un possibile lato oscuro dello Stato, fatto di fughe di notizie, infiltrazioni, e perfino presunti episodi di corruzione.
Ma non è tutto. Lanza ci ha mostrato come l’eliminazione di Ilardo non fosse un caso isolato, ma l’inizio di una strategia di annientamento del suo intero gruppo operativo, che la mafia considerava oramai contaminato dal contatto con le istituzioni.
Nel prossimo capitolo, approfondiremo la testimonianza di Salvatore Chiavetta, altro collaboratore chiave, che offrirà ulteriori conferme sulle responsabilità operative dell’agguato e ci condurrà ancora più vicino al cuore del disegno omicidiario. Le sue parole ci aiuteranno a capire chi sapeva, chi ordinò, chi eseguì… e forse, chi rimase a guardare.
Perché la verità, quella vera, non si accontenta delle sentenze: va cercata, pezzo dopo pezzo.
(Segue: La voce di Salvatore Chiavetta)
Guglielmo Bongiovanni