
Onore ad Antonio Montinaro, eroe della scorta di Falcone
Le sue parole poco prima della strage di Capaci: “Io come tutti gli uomini ho paura. Non sono vigliacco.”
Mi hanno colpito profondamente le parole dell’agente di scorta Antonio Montinaro barbaramente ucciso il 23 maggio del 1992 nella strage di Capaci.
Le parole di Montinaro, che mi sono ritrovato in un post di Facebook andavano condivise con tutti i nostri lettori. Sono un testamento morale che ancora oggi risuona con forza.
Sono il testamento morale di un uomo dello Stato, consapevole del rischio, ma ancora più consapevole del dovere. Sono parole che vibrano di umanità, orgoglio e coraggio.
Antonio Montinaro, capo scorta del giudice Giovanni Falcone, le pronunciò poco prima del 23 maggio 1992, giorno della strage di Capaci. Morì con Falcone, Francesca Morvillo, Vito Schifani e Rocco Dicillo. Ma ciò che disse prima di morire è rimasto inciso nella memoria di chi ancora oggi lotta per la verità, per la giustizia, per un’Italia libera dalla mafia.
“Chiunque fa questa attività ha la capacità di scegliere tra la paura e la vigliaccheria. La paura è qualche cosa che tutti abbiamo: chi ha paura sogna, chi ha paura ama, chi ha paura piange, è un sentimento umano.
È la vigliaccheria che non si capisce e non deve rientrare nell’ottica umana.”
Così parlava Antonio Montinaro. Non negava la paura, la riconosceva come parte della vita. Ma la distingueva dalla viltà, da quell’ombra che si insinua quando si rinuncia a essere uomini. La sua non era incoscienza, ma consapevolezza. Non eroismo ostentato, ma dignità quotidiana.
“Io come tutti gli uomini ho paura indubbiamente, non sono vigliacco, me ne sarei già andato. Beh, nella mia posizione la paura è magari lasciare i bambini soli.
Per uno scapolo è diverso.
Per uno sposato si gestisce in virtù della propria famiglia: si ha paura di lasciarli soli, si ha paura di non avere la capacità di morire per una ragione valida.”
Dietro il ruolo, dietro l’uniforme, c’è un padre. Un marito. Un uomo che sa cosa rischia ogni giorno ma continua a farlo perché ci crede. Perché la sua paura ha un senso, un volto, un nome: la famiglia che potrebbe restare sola. Ma anche l’Italia che non deve restare sola.

“Io scorto un uomo ad altissimo rischio, un uomo che ha dato la possibilità a molti di credere. Non lo scorterei sicuramente se non avessi la massima fiducia nei suoi confronti; ho messo la mia vita a rischio per lui.
Perché probabilmente è uno dei pochi di cui io forse ho tracciato una tale identità antimafia che mi permette di stare bene con me stesso, lo scorto perché credo che sia onesto, sennò non lo scorterei.”
Montinaro credeva in Falcone. Lo dice con una lucidità che commuove: «Lo scorto perché credo che sia onesto». E questa convinzione diventa un vincolo morale, un giuramento personale. Il rischio non è mai stato cieco. Era calcolato, accettato, abbracciato.
“Se un personaggio decide di combattere un fenomeno come la mafia e non ha l’aiuto della società, è normale che bisogna scortarlo. Se qualcuno decide di ammazzare un personaggio lo fa a prescindere da quanti uomini ci siano di scorta.
Però io pecco di presunzione: io dico che attualmente siamo nelle condizioni, noi di questo apparato di sicurezza, se vengono nel contesto di autobomba va bene e li si è persi, lì siamo sconfitti, la bomba fa il danno e tutto…
Ma se dovessero venire nel contesto dell’attentato fatto ad un uomo cioè con l’uso di armi leggere o mitragliatrici, beh lì abbiamo la presunzione di lanciarne qualcuno a terra anche noi.”
Non si illude, Montinaro. Sa che contro una bomba piazzata sotto l’autostrada non c’è addestramento che tenga. Ma sa anche che se la mafia avesse scelto il fuoco diretto, la sua squadra non si sarebbe tirata indietro. «Ne avremmo lanciato qualcuno a terra anche noi». Non era arroganza. Era la dignità di chi non si arrende.
“La faccia della mafia è la faccia della gente che vede uccidere un uomo e non testimonia. Ecco, ci sono mille facce, mille momenti che vengono fuori quando la gente ha paura.
La mafia è forte proprio perché la gente ha paura, e la paura nasce dalla volontà di non credere in chi potrebbe rappresentare, cioè la gente crede di non poter avere fiducia nello Stato.”
Un’analisi limpida. Spietata. Tragicamente vera. La mafia si nutre di silenzio, e il silenzio nasce dalla sfiducia. Per Montinaro, la chiave non è solo arrestare i boss, ma ricostruire un legame: tra cittadini e Stato, tra giustizia e speranza.
“Si sconfigge la mafia con un solo modo secondo me: facendo capire ai cittadini che i tempi del rivolgersi ad un “Peppino” o ad un “Zu Ciccio” sono terminati, esiste uno Stato, esistono dei rappresentanti e sono loro che devono risolvere i problemi.
Il vicino di casa non li può risolvere, può risolvere l’ascensore quando si è rotto…”
Montinaro indica la strada. Non alle scorciatoie, non ai favori, non ai “padroni locali”. Ma allo Stato. Alle sue istituzioni. Alla responsabilità collettiva. Alla legalità.
Antonio Montinaro non è morto quel 23 maggio del 1992. È vivo ogni volta che un cittadino sceglie lo Stato e non la mafia. Ogni volta che un giovane legge le sue parole e sceglie il coraggio. Ogni volta che qualcuno, anche con la paura nel cuore, decide di non essere vigliacco.
Onore eterno a te, Antonio. Le tue parole sono pietra. Il tuo esempio, luce.
Guglielmo Bongiovanni
Che dire? La verità è quella di Antonio Montinaro e anche la mia